Intervista a Sonia Ambroset

 

La didattica per stranieri nelle carceri italiane

di Misa Poltronieri

 

Misa Poltronieri: mi può descrivere la sua particolare esperienza lavorativa (come e nata, a chi e rivolta, com’è strutturata, che temi sono trattati)?

Sonia Ambroset: un’esperienza che ho fatto con gli stranieri risale a sei anni fa, si trattava di un "Corso di uso della città" in cui si aiutavano gli stranieri, assieme agli italiani, ad avere informazioni di base sulla città, che potessero servire nel momento dell’uscita dal carcere. In genere, i temi importanti per gli stranieri, spaziano dalla scuola, alla salute, al lavoro. L’obiettivo era dare le prime informazioni che li aiutassero, una volta fuori, ad essere cittadini. Questa era un’attività di volontariato che faceva parte di un progetto. Dopo quest’esperienza, ho iniziato una collaborazione, all’interno dello stesso progetto, con associazioni che si occupavano di stranieri. Abbiamo fatto un’attività interessante, un corso di geografia multiesperienziale. I detenuti stranieri partecipavano a lavori di gruppo, in questi ultimi erano rappresentate diverse etnie e ciascuna persona raccontava la propria cultura agli altri. Si è anche prodotto del materiale in cui la geografia diventava esperienza. Questo lavoro l’abbiamo fatto per un po’, poi sono mancate le risorse per andare avanti e si è concluso.

Ad un certo punto, io ed una mia collega abbiamo pensato che se dovevamo occuparci degli stranieri, dovevamo farlo seriamente. Sulla base di una proposta della regione Lombardia, abbiamo fatto un primo percorso di formazione per operatori penitenziari. L’obiettivo era aiutare gli operatori penitenziari - in particolare gli agenti della Polizia Penitenziaria - ad avere a che fare con le diverse culture rappresentate in carcere. Abbiamo iniziato questo lavoro e lo stiamo portando avanti da tre anni. A volte è finanziato dagli enti locali, a volte dal Ministero di Grazia e Giustizia, il problema delle risorse c’è sempre. Dato che l’obiettivo di questo corso è sensibilizzare e far conoscere meglio le culture rappresentate in carcere, utilizziamo anche docenti stranieri per fare lezione agli italiani. Innanzi tutto, perché gli stranieri sono più bravi nel parlare della loro cultura. In secondo luogo, il docente straniero è una rappresentazione chiara, che respinge certi stereotipi, come quello che vede gli stranieri solo come carcerati. Questo sistema funziona molto bene. Poi, abbiamo fatto un percorso sperimentale, con un gruppetto di detenuti di San Vittore, appartenenti ad otto nazionalità diverse. Abbiamo fatto un lavoro formativo minimo, orientato alla mediazione. La nostra ipotesi era che il detenuto straniero, da qualche tempo in carcere, potesse aiutare un suo connazionale appena entrato, nella fase più dura. Poteva farlo collaborando con gli agenti che lavorano in Matricola o con gli psicologi che lavorano al servizio Nuovi Giunti un servizio d’ingresso gestito da loro. Il detenuto esperto poteva fare, innanzi tutto mediazione linguistica, facilitando l’operatore nel rapporto con lo straniero e aiutando quest’ultimo a rendersi conto di cosa gli stava succedendo.

Il percorso formativo è stato fatto con detenuti accuratamente selezionati, con la promessa della direzione che fare il mediatore sarebbe diventato un lavoro, pagato sotto la voce scrivano, che è una delle professioni che i detenuti possono esercitare in carcere, in modo permanente. Abbiamo fatto quaranta ore di lavoro in aula e i detenuti stranieri hanno imparato le basi di cos’è la mediazione e quali sono le strategie della comunicazione. Tutta questa parte è stata gestita da docenti stranieri che avevano già collaborato con noi sulla mediazione. Inoltre, sono state fatte venti ore di tirocinio in cui il detenuto, che aveva frequentato le ore in aula, faceva pratica. L’agente lo valutava e c’informava sulla sua idoneità. Questo lavoro ha funzionato molto bene perché, alla fine del percorso, otto referenti, di otto lingue diverse, potevano essere messi a disposizione del personale penitenziario. Ad un anno di distanza, però, ci accorgiamo che i detenuti hanno fatto bene il loro percorso, hanno lavorato per un po’ di tempo come scrivani, ma gli operatori penitenziari, di fatto, non li cercano. C’è un atteggiamento di sottovalutazione di una risorsa come questa.

L’esperienza è stata fatta a San Vittore e non siamo convinti che debbano essere fatti altri corsi per mediatori, con i detenuti, nella prospettiva della mediazione culturale generale, perché non ha senso. Avrebbero senso, invece, dei piccoli percorsi per detenuti con pene lunghe, stare in carcere potrebbe diventare più significativo. Ci accorgiamo, però, che dal lato degli operatori penitenziari c’è un mondo in cui o sei presente tu per far fare le cose o queste non si fanno.

Adesso, c’è un gran dibattito sull’introduzione o meno del mediatore in carcere come figura professionale. Nel settore minorile questo sta già accadendo, in alcune carceri per adulti incominciano adesso. La mia opinione è che il mediatore sia una figura utilissima che, però, non conosce il carcere. Secondo me, dovrebbe essere supportato da qualche detenuto che è diventato un po’ competente. Un’esperienza che farei volentieri in carcere è quella di coinvolgere associazioni e comunità straniere che risiedono in Italia. Noi, in questo campo, abbiamo tentato delle opere di sensibilizzazione, chiedendo alle associazioni straniere, che hanno dei conterranei nelle patrie galere, di aiutarci a lavorare dentro il carcere, ma ci siamo trovati di fronte a delle resistenze. Ciò è anche comprensibile, perché chi fa parte di queste associazioni o comunità afferma che, quelli in carcere, sono connazionali che li mettono in cattiva luce.

Dicono di dover già affrontare i loro problemi d’inserimento. Perché dovrebbero aiutare questi detenuti? Nei confronti degli albanesi, per esempio, questo problema viene fuori. I conterranei liberi sostengono di dovere già affrontare gli stereotipi che ci sono in Italia, non hanno nessuna voglia di impegnarsi con connazionali che sfruttano le donne ecc. Sostengono anche e forse giustamente, che gli stessi detenuti non li vorrebbero. Si fa fatica a creare una rete di stranieri che si occupino di quelli in carcere e questo dato impoverisce le possibilità. Tra l’altro, tutto ciò che si fa per gli stranieri in carcere si scontra con la legislazione, perché queste persone, una volta libere, dovranno tornare nel loro paese. Lavorare sul trattamento è utopico, non perché impossibile - perché si può fare tutto con gli stranieri, esattamente come con gli italiani - ma perché nel futuro di queste persone non c’è nessun’applicazione concreta di tutto ciò.

Dovrebbe cambiare la legislazione, una proposta molto interessante di alcune associazioni è che gli stranieri, entrati in carcere con il permesso di soggiorno, possano avere l’opportunità di rinnovarlo partecipando a certe attività. Questa è un’ipotesi su cui si potrebbe lavorare.

 

Misa Poltronieri: secondo lei insegnare a detenuti stranieri è diverso dall’insegnare a detenuti italiani? Crede che ci siano delle differenze particolari tra questi due tipi di studenti (interessi, livello o tipo d’istruzione, comportamento ecc.)?

Sonia Ambroset: io ho avuto a che fare soprattutto con tossicodipendenti e credo che in questo campo i problemi siano comuni a stranieri e italiani. Tolta la lingua, che resta un problema, il rapporto con i detenuti stranieri non è diverso da quello con gli italiani. Gli stranieri manifestano un certo interesse alle cose che si fanno in carcere, perché sono i più poveri. Per loro non c’è niente, hanno pochissimi colloqui telefonici con le famiglie, non hanno la possibilità di partecipare ad alcune attività, perché ce ne sono poche rispetto la quantità di detenuti, ecc. L’unica cosa che sono riusciti a guadagnarsi i mussulmani è di avere rappresentato il loro culto, c’è una moschea in carcere. Riguardo alla libertà religiosa, però, penso che si dovrebbe anche tenere in considerazione tutti gli altri culti. Le moschee si fanno e il resto non esiste, questo non mi piace. I detenuti stranieri manifestano interesse per molte cose, perché hanno meno opportunità e a differenza degli italiani, hanno problemi riguardo ai bisogni fondamentali: Il vestiario, qualche soldo, ecc. In genere sono in condizioni disastrose [AAVV, Gli stranieri in carcere, 1994, p. 158, par. 6]. La differenza vera tra detenuti stranieri e italiani sta nelle dinamiche carcerarie. Tra i primi ci sono problemi seri nei rapporti tra etnie e questo è un problema tipicamente straniero. Ci sono problemi di convivenza nelle celle e tra marocchini e albanesi la guerra è aperta. Questo grave problema si diffonde sempre di più e non si sa bene quali soluzioni adottare. Gli agenti sono esasperati da queste tensioni.

Un altro problema tipicamente straniero è che le attività che si fanno in carcere con detenuti stranieri perdono di significato, perché loro non possono restare in Italia. Più si avvicina il momento dell’uscita dal carcere, più i detenuti si accorgono che quello che gli si è proposto non serve a niente. Sono stati fatti dei lavori interessanti, dei progetti - qui a Milano uno si chiama New Road ed è un progetto per detenuti mediatori - i detenuti, però, si chiedono dove andranno quando usciranno e a cosa saranno serviti i loro sforzi.

Chi progetta e fa interventi per gli stranieri, se è onesto, deve domandarsi cosa succede dopo allo straniero e che genere di formazione professionale gli si vuole dare. Un conto è insegnare ad un detenuto straniero un mestiere che potrebbe essere utIle anche nei loro paesi, un conto è lavorare su professioni troppo alte che nei loro paesi non servono. Altrimenti si lavora su campi elevatissimi, perché si ha lo straniero acculturato, ad esempio si fa informatica. Sulla formazione bisogna, quindi, stare attenti. Altro sono gli interventi culturali, gli stranieri sono sempre disponibili a fare cose che riguardano la cultura, sia loro, sia altrui. I corsi, i lavori fatti con i gruppi, l’idea dei giornali nel carcere, sono sempre utili. Non hanno uno sbocco diretto per i detenuti che escono, ma permettono di vivere in carcere in modo più ragionevole. Le differenze tra stranieri e italiani sono legate, quindi, al fatto che le condizioni di vita dei primi sono diverse da quelle del secondi. È vero, però, che il problema della convivenza tra etnie è tipicamente straniero.

 

Misa Poltronieri: per le lezioni o le attività in carcere i detenuti sono scelti anche in base allo stato di conflitto che può nascere tra etnie diverse?

Sonia Ambroset: ogni carcere si organizza come può, non come vuole, sono poche, però, le attività fatte integrando italiani e stranieri. Quando si fanno cose per stranieri, si può lavorare con piccoli gruppi, con un detenuto per nazionalità, in modo da poter governare la situazione, con gruppi più grandi non si riesce. I detenuti stranieri non vivono molto il rapporto con gli educatori. Incontrano volontari e partecipano a qualche proposta formativa che arriva attraverso corsi di formazione professionale. Non ci sono molti interventi nemmeno per gli italiani, perciò, non è possibile valutare cosa si fa. Una cosa importante è che noi non sappiamo niente degli stranieri in carcere, non c’è una vera ricerca su chi entra in carcere, non sappiamo quanta gente è acculturata, non sappiamo che cosa facevano prima nella vita, ecc. La popolazione carceraria straniera è assolutamente sconosciuta. La situazione è questa perché non si raccolgono i dati, si sa solo il tipo di reato compiuto da ogni detenuto straniero. Secondo me fino a quando non faremo un’operazione del genere, i nostri interventi saranno poco mirati. Mi domando se e come cambierà la popolazione carceraria, per esempio con le seconde generazioni. Avremo sempre lo stesso tasso di stranieri tra dieci anni? Adesso abbiamo il frutto dell’immigrazione, c’è un exploit di stranieri in carcere, non si sa se resterà stabile o meno.

 

Misa Poltronieri: i suoi metodi d’insegnamento o temi affrontati cambiano quando lei lavora con studenti stranieri? Se sì, come e perché cambiano?

Sonia Ambroset: i metodi sono gli stessi, le tecniche sono sempre attive e con piccoli gruppi di lavoro. Si utilizza un linguaggio semplice, perché si lavora con detenuti di fasce basse - ci sono anche analfabeti italiani. Lavorando in carcere s’impara a parlare in modo diverso. Le tecniche, quindi, non cambiano. Può, però, succedere che con gli stranieri si lavori di più sui significati culturali. Per esempio, se si fa informazione sanitaria, si deve tenere conto che alcuni detenuti arrivano dai villaggi africani, dove il medico non è quello di cui parliamo noi. Per noi raccogliere i loro significati è importantissimo, per mirare le informazioni, spiegare che possono esserci punti di vista diversi e che il loro vale quanto il nostro. Questo lavoro è utile anche per gli italiani che lavorano con stranieri, perché questi ultimi danno delle interpretazioni del mondo che gli italiani non hanno.

 

Misa Poltronieri: che conseguenze ha sul suo lavoro il fatto che gli studenti siano di passaggio, ad esempio che alcuni per qualche tempo frequentino ma che poi interrompano perché tornati in libertà?

Sonia Ambroset: questo è un problema strutturale che il carcere ha non solo nei confronti degli stranieri, ma con tutti. In ogni modo, se si lavora in una casa di reclusione dove ci sono pene lunghe si possono fare certe cose, se si lavora in un carcere circondariale dove si sa che la gente è in transito, se ne fanno altre. Ciò non influisce in modo particolare sul mio lavoro, perché io so dove lavoro e struttura le attività in relazione a questo tipo di variabili. Mi rendo conto, però, che la maggior parte delle persone che lavora in carcere non tiene conto di queste variabili. Il paradosso è che certe persone fanno ottocento ore di formazione in un anno in carceri dove sanno che la permanenza media dei detenuti è di tre mesi. Non ha senso proporre un progetto come questo. Un problema, è la capacità della gente che vuole lavorare con il sistema penale di fare progettazioni mirate in carcere. Il sistema penitenziario, in genere, non è capace di aiutare su questo problema perché i direttori delle carceri rigide non fanno entrare niente o con fatica, i più aperti fanno entrare tutto, ma non c’è nessuno che valuta cosa può funzionare o meno. La realtà è che il carcere ha situazioni di transitorietà odi pene lunghe, questo non influisce negativamente se si sa lavorare, se si fanno cose congruenti. L’unica cosa che può creare problemi in carcere è il trasferimento [Malvezzi, 1974, p. 9]. Gli stranieri sono trasferiti più frequentemente, perché nei momenti di sfollamento li mandano per primi altrove. Questo è un problema vero, perché si può tenere conto di tutte le variabili dette prima, ma questa è diversa. La richiesta che tutti noi facciamo sempre al direttore, prima di avviare corsi, ecc., è quella di garantirci il più possibile stabilità. In genere i direttori fanno quello che possono, ma chi gestisce davvero i trasferimenti sono gli agenti, sono loro che propongono i nominativi per gli sfollamenti. La capacità di lavorare con gli agenti di Polizia Penitenziaria è fondamentale. Ci piaccia o no, lavorare bene con gli agenti vuoi dire garantirci certe possibilità. Parallelamente, bisogna lavorare bene con i detenuti e fargli capire che se hanno un’opportunità come, ad esempio, poter partecipare ad un corso, devono stringere i denti e fare in modo di non avere problemi con gli agenti, almeno nel periodo del corso. Se si lavora sui due fronti si ottiene qualche cosa, però il coltello dalla parte del manico è sempre nelle mani dei primi. Questo è un problema, ma è gestibile.

 

Misa Poltronieri: cosa dell’ambiente carcerario disturba o appesantisce di più il suo lavoro con i detenuti?

Sonia Ambroset: dell’ambiente carcerario sicuramente disturba l’aspetto logistico, anche se ciò non significa che in carceri "incasinate", come ad esempio San Vittore, non si possa lavorare - puoi fare più cose in un carcere come questo che non in altri meglio gestiti e più belli, dove però non c’è una direzione che ha voglia di fare. L’organizzazione logistica è importante, soprattutto, per le attività di formazione, d’insegnamento, spesso non ci sono proprio i luoghi dove fare le cose. Un altro problema legato all’ambiente carcerario è quello degli orari. Ogni carcere ha una vita a se, un mondo a se. Ci sono carceri che ti consentono di lavorare solo due ore al giorno, ciò significa che ti devi adattare completamente e che i detenuti per lavorare con te devono rinunciare all’aria. La gestione degli orari è un aspetto significativo. In fine, un problema dell’ambiente carcerario riguarda ciò che devono fare i detenuti: colloqui con gli avvocati, con le famiglie, ecc.

Se si pensa di fare un lavoro in carcere, le prime informazioni che bisogna avere sono quelle che riguardano spazzi, orati, impegni dei detenuti, ecc. Chiedere è una cosa che non fa mai nessuno. Se una persona vuole fare un’attività in un determinato raggio, non va mai a domandare quali sono le ore disponibili, prima progetta, poi pretende che sia il carcere ad adattarsi.

Questa è una delle ragioni del malcontento degli agenti. Pensano che la gente non capisca che ogni detenuto che deve fare qualche cosa lo devono accompagnare. Ogni organizzazione esterna che entra in carcere introduce elementi che invece di inserirsi nell’organizzazione del carcere, ne propongono un’altra e questo va a scompensare tutto. Secondo me, questi sono i veri problemi, quelli di tipo logistico e organizzativo. Un altro problema, legato all’ambiente carcerario, è il rischio che tutti si affezionano troppo al carcere, perché una volta che ci si lavora dentro s’instaurano meccanismi affettivi ed emotivi importanti. Il carcere, secondo me, è un’esperienza molto forte per chi c’entra come detenuto, ma è ancora più forte per chi c’entra solo da volontario. È un utero molto accogliente. Il rischio è che la gente che va in carcere finisca per chiudercisi dentro e, tutto l’impegno che ci mette a lavorare, lì non lo spenda mai altrove. lo lavoro, per scelta, anche fuori del carcere e mi rendo conto che attivare, per esempio, del volontariato all’esterno del carcere è molto difficIle. Il carcere affascina tutti, poi, siccome le relazioni con le persone in carcere diventano forti, perché in un luogo chiuso si enfatizza tutto, chi viene dall’esterno tende a rimanerci. Questo è un rischio, è una perversione del lavoro in carcere e riguarda un po’ tutti. Il carcere è un ambiente che ci fa paura, ma è anche un contenitore che assolve molti bisogni.

 

Misa Poltronieri: com’è il rapporto con l’amministrazione carceraria?

Sonia Ambroset: gli agenti sono molto incattiviti dal modo di lavorare degli operatori. Ho l’impressione che siano una categoria che fa un lavoro che non gli piace più di tanto. Le frange di agenti di stampo puramente repressivo, poliziesco, stanno andandosene, perché arrivano le nuove generazioni e queste sono più acculturate - con loro puoi fare ragionamenti diversi. Sono, però, molto giovani e gestire l’autorità a quell’età crea effetti paradossali. Quando non si è molto capaci d’interagire si ricorre maggiormente all’autorità, perché non si ha ancora credibilità. Rispetto alle attività che si possono fare in carcere, però, oggi c’è la possibilità di interloquire con gli agenti.

Sono troppe, secondo me, le persone che sostengono che gli agenti sono "cattivi", l’atteggiamento che si porta dall’esterno è negativo nei loro confronti, quindi, è inevitabile non capirsi. Per risolvere il problema vanno formati gli operatori, oltre agli agenti. Se i primi riuscissero ad andare poco al di là degli stereotipi, potrebbero entrare in relazione con gli agenti in modo molto umano scoprendo, a volte, una capacità di elaborazione degli agenti, che effettivamente non si riconosce nella categoria professionale. lo, però, affermo questo dopo venticinque anni di lavoro. Mi rendo conto che una persona che entra in carcere con i suoi stereotipi in testa fa fatica a capirlo. Inoltre, gli agenti ti fanno delle prove di forza, hanno bisogno di essere riconosciuti in un ruolo di potere.

O diventi scaltro e prima di progettare un lavoro parli un po’ con l’agente del reparto, gli spieghi cosa vuoi fare, chiedi il suo aiuto, coinvolgendolo e tenendolo dalla tua parte, oppure, se arrivi da sconosciuto e non vai a parlare con il capo reparto, come fanno il novanta per cento degli operatori e del volontari, l’agente va avanti per la sua strada. Dato che il carcere può fare a meno di noi operatori, volontari, ecc. ma non può fare a meno degli agenti, questi sanno di essere dalla parte del più forte. Siamo noi che dobbiamo coltivarli. Il rapporto con la direzione varia, al cambiare di questa [AAVV, il carcere trasparente, 2000, pp. 168-71], l’importante è sapere che il direttore è un interlocutore fondamentale, perché è responsabile di tutto in carcere. Il direttore, però, deve rispondere al Dipartimento dell’Amministrazione e spesso non è così indipendente come tutti credono, anzi, ha vincoli molto forti. Il rapporto cambia con ogni direttore. In base a come lui gestisce il proprio ruolo, gestisce anche il carcere. Il direttore è una figura importante, perché incide sul clima del carcere, ma anche perché gestisce il rapporto con gli agenti penitenziari. La variabile che conta di più nella sicurezza del carcere è quanto il direttore sia in relazione con il comandante degli agenti. Spesso, di fatto, su alcune aree comanda il comandante della Polizia Penitenziaria, anche se formalmente è responsabile il direttore. Adesso l’attività dirigenziale del carcere sta diventando anche femminile, bisognerà vedere cosa succede con le direzioni femminili. Può essere che per questo cambiamento anche le carceri cambino, ciò è accaduto tra gli agenti di polizia penitenziaria, quando le donne sono entrate a far parte del corpo. Le figure sulle quali ci sarebbe più da dire sono quelle sanitarie. I medici penitenziari sono fondamentali, ma per me sono abbastanza codardi, perché sono spessissimo dalla parte dell’istituzione e in modo pesante. Personale che dovrebbe garantire il diritto alla salute dei detenuti spesso e volentieri non fa ciò che dovrebbe.

Non so cos’accadrà con la riforma che apre gli istituti penitenziari alla medicina pubblica, credo un gran pasticcio. La riforma in se è buona, sarebbe giusto che fosse la medicina pubblica ad occuparsi dei cittadini detenuti. Ho seri dubbi, però, sia sul fatto che dei medici provenienti dal settore pubblico siano in grado di fare una proposta per il carcere, sia sulla loro voglia di fare. Il carcere fagocita tutti e lo farà anche con loro.

L’unica cosa che si sa è che nessuno ha idea di come si realizzi questa riforma. Quando faccio formazione al personale sanitario delle carceri gli dico che toccherebbe a loro fare delle proposte. A mio avviso, dei medici che sono chiamati a lavorare in un’istituzione totale si devono impegnare e devono cercare di capire in che modo ci possono stare. D’altro canto, sarebbe una riforma forte. Ho, comunque, dei dubbi sul fatto che si realizzerà. Si parla troppo poco del personale medico, non si sa bene quello che fa, ad esempio c’è un gran giro di psicofarmaci in carcere.

Gli educatori sono quasi inesistenti. Continuano ad affermare che gli hanno fatti diventare burocrati, ma io, che da vent’anni lavoro in carcere, credo che la loro storia non sia questa. Temo che, per gli educatori l’importante sia non vedere i detenuti - le carte le possono fare anche gli agenti. Secondo me, bisogna, per ora, stendere un velo pietoso su questa categoria e sperare che chi viene dall’esterno promuova delle cose. A me farebbe piacere che aumentasse il numero degli educatori, a patto che questi facessero il loro lavoro [Grimaldi, 1991, pp. 136-8].

Non ho molta fiducia che, con loro, le cose cambino. Lavoro molto con gli educatori e qualcuno, preso singolarmente, è bravo e lavora molto. Questi pochi, però, pagano uno scotto altissimo perché il loro rapporto con i colleghi diventa conflittuale. Magari uno di loro resiste per un po’, poi, però, chiede un trasferimento. I pochi che hanno la voglia e la capacità di lavorare bene, devono scontrarsi con un altro ambiente [Grimaldi, 1991, p. 123].

Una categoria di cui non si parla mai è quella degli esperti: psicologi, ecc. Questa, è un’altra categoria su cui stenderei un "velo pietoso". Ritengo che siano figure che possono fare molto, ma sostengono di non poter fare abbastanza solo perché sono consulenti e non sono di ruolo. lo sono un’ex esperta, perché dopo aver lavorato come psicologa e criminologa ho detto basta. Ho lavorato al Ministero come consulente. C’è da sempre una parte di noi che sostiene che sia una fortuna non essere dipendenti del Ministero, perché ciò significa essere più liberi, però, è più forte l’altra parte, quella che chiede il ruolo, che chiede di entrare a pieno titolo nell’amministrazione penitenziaria. Capisco, in ogni modo, che una persona pensi che il lavoro stabile è migliore.

A parte questo, gli esperti sono una categoria che sta facendo poco e sull’istituzione non sono una forza. Gli psicologi gestiscono il Servizio Nuovi Giunti, che è stata una loro invenzione ed è nata per la prevenzione al suicidio. L’idea che un Servizio Nuovi Giunti possa prevenire il suicidio - visto che si tratta di un colloquio che va dai cinque ai sette minuti e a volte con stranieri che non parlano italiano - è discutibile. Farei una verifica su questo servizio.

 

Misa Poltronieri: in "Maggio selvaggio" Edoardo Albinati scrive [Albinati, 1999, p. 120] le menti del delinquenti con cui lavoro sono, all’inizio, del blocchi duri, pasta lasciata raffreddare in forme che non sono mai definitive. Bisognerebbe avere mani molto calde per rilavorarle. Si procura anche dolore, con questo massaggio. Abitudine e disabitudine irrigidiscono gli uomini fino a ridurli a macchinette che ridono e piangono. Combattono, mangiano e respirano e poi alla fine crepano. Nel carcere lo schema si fa ancora più povero e le mosse obbligate (...). Si può introdurre qualche variazione o almeno una pausa in questa sequenza meccanica? Non so se lo Stato mi paghi esattamente per questo ma questo cerco di fare": mi può dire cosa ne pensa?

Sonia Ambroset: mi domando se questo succede perché le persone sono delinquenti o perché sono in carcere. Se si va a fare un’esperienza d’insegnamento con analfabeti di ritorno, si ha la stessa sensazione. M’incuriosisce che la gente non si aspetti che i detenuti facciano certe cose. Mi domando cosa sono, secondo loro, i detenuti. Sento dire: "Non avrei mai creduto che capissero quello che dicevo". Le persone credono che siano tutti deficienti? Lo stereotipo implicito in tutti noi è che, chi finisce in carcere, è una persona che manca di qualche cosa. Invece, c’entra chiunque in carcere. Altro è il fatto che tu incontri i detenuti in un contesto infantilizzante e che si basa su premi e punizioni, perciò, anche rincitrullente. Ci sono persone che hanno avuto più ingressi in carcere e che hanno maturato un sistema d’adattamento, perciò, affermare che l’esperienza carceraria può provocare certi comportamenti mi trova d’accordo. Dire, però, che una persona perché in carcere è in un certo modo e che c’è entrata perché era così anche prima, mi sembra forzato.

Ho l’impressione che in una frase come quella di Albinati ci sia l’esperienza di chi si occupa d’educazione agli adulti in contesti disagiati. Non credo che la gente che va in carcere appartenga ad una tipologia particolare. La fissità delle esperienze, secondo me, non è data dal fatto che queste persone sono in carcere, ma dai contesti da cui provengono. Una cosa del carcere, invece, è l’idea del "io ti do, tu mi dai", questo accade perché è il carcere che imposta la logica dei premi e delle punizioni. Non è una caratteristica personale del detenuto, è un sistema d’adattamento al carcere. Lui si comporta in relazione al contesto in cui si trova, se lo incontro in quest’ambiente è difficile che possa avere con lui una relazione autentica. Tutto ciò che in carcere è autentico è pagato caro. I detenuti sanno che anche la relazione con noi è mediata e deve essere così.

Credo che, chi va a lavorare in carcere debba conoscere quali sono i sistemi d’adattamento della persona all’istituzione totale. Non può leggere ciò che accade con un detenuto come se, in quel momento, fosse avulso da quel contesto, perché non lo è mai. I detenuti, spesso, ti dicono quello che pensano di doverti dire e che tu ti aspetti, perché la relazione con gli operatori e con gli agenti, è fatta in questo modo e anche se tu sei un insegnante, il principio è lo stesso [Cignoni, 1989, p. 200]. In genere nel tempo maturano modalità diverse ma, di sicuro, questo è l’impatto ed è anche ciò che il carcere produce [Conoscenti, 1991, p. 28]. È per questo che la gente non dovrebbe entrare in carcere, perché non può che fare male, non c’è altra possibilità di miglioramento della persona. Chi dei detenuti migliora o fa un’esperienza di ripensamento, avrebbe fatto la stessa esperienza da un’altra parte [Sofri, 1993, p. 138].

 

Misa Poltronieri: Silvana Marchioro scrive "chi insegna in carcere deve muoversi con consapevolezza tra due estremi, nei quali esiste il serio rischio di incorrere: quello del senso d’inutilità del tutto, che il contesto in cui si opera induce e che invita a trincerarsi dietro alla riproposizione di pratiche didattiche routinarie e rassicuranti; e quello della mistica fiducia nel cambiamento radicale del soggetti che può portare il formatore ad un coinvolgimento totale di se nella pratica formativa, scarsamente critico" [Marchioro, 1997, punto 1]. Lei cosa ne pensa?

Sonia Ambroset: approvo pienamente questa frase. Secondo me, chi lavora in carcere, in particolare chi insegna, dovrebbe domandarsi perché lo fa, quali sono le proprie aspettative su questo lavoro. È vero che in carcere compare la prima logica descritta dalla Marchioro, che forse è la più diffusa. Un operatore entra in carcere e diventa istituzione come tutti gli altri. È altrettanto vero, però, che c’è gente che fa investimenti folli sul suo lavoro e ci sta anche male. A me capita, in aule formative, di trovare insegnanti che mi raccontano di lavorare da dieci anni in carcere senza mai un successo, perché chi è uscito torna in carcere. È come se il loro obiettivo fosse di non farli più rientrare. Bisognerebbe riuscire ad avere l’equilibrio per capire che un detenuto ha commesso dei reati, non è dentro perché è un angioletto, ma è anche una persona stanca, che deve passare in galera un periodo di vita e merita delle opportunità. Se ci fosse un modo più laico di accostarsi al carcere, sarebbe una buona cosa. Penso, in ogni modo, che in carcere vada bene tutto e il suo contrario, perché essendoci la sfortuna più assoluta, anche i peggiori operatori possono andare bene. C’è il rischio che la gente lavori al minimo, anche potendo fare meglio o che gente molto demotivata non abbia il coraggio di andarsene e questo è triste. Credo, però, che sia peggiore la posizione di chi fa il missionario a tutti i costi. Mi è capitato, comunque, di conoscere insegnanti bravi, capaci di avere un grande equilibrio, di essere attenti ai bisogni delle persone e anche capaci di non diventare punitivi, se la persona non risponde come vogliono. Incattivirsi e diventare punitivi è quanto di peggio possa accadere, sia per i detenuti che per la persona che li segue.

 

Misa Poltronieri: secondo lei oggi il carcere ha una valida funzione istruttiva per i detenuti?

Sonia Ambroset: in base alla mia esperienza penso che sul piano dell’istruzione il carcere funzioni, nel senso che moltissime persone riescono a recuperare ciò che, a volte, hanno perso da giovani. I percorsi d’alfabetizzazione e d’istruzione primaria sono una buona cosa, dovrebbero essere rafforzati molto. Purtroppo solo il carcere dà queste cose. Anche la scuola media inferiore funziona.

 

Misa Poltronieri: secondo lei oggi il carcere ha una valida funzione formativa per i detenuti?

Sonia Ambroset: dal punto di vista formativo, secondo me, c’è un paradosso: c’è molta ricchezza nei percorsi formativi in carcere - se incontri un detenuto che ha alle spalle dieci anni di detenzione, avrà almeno quattro o cinque qualifiche accumulate - non credo, però, che la formazione offerta sia efficace, perché è totalmente disgiunta dal mercato del lavoro [Pranzini, 1978, pp. 106-8]. Le attività vincenti sono poche, per ora, ma sono buone. Fare formazione in carcere significa fare dei corsi che diano almeno la possibilità di fare del tirocini all’esterno, di stare un po’ in carcere e un po’ fuori e che siano orientati al mercato del lavoro. Quando queste esperienze si fanno danno buoni risultati. Certo la formazione è utilissima per tutti quelli che ci lavorano: non ci sono mai stati fino ad oggi tanti formatori pagati. Secondo me, manca un’attività di programmazione interna al carcere. Il problema è che questo sistema non ha niente che favorisca l’analisi del bisogno, la progettazione integrata e la programmazione. Se non c’è questo e nemmeno una rete con l’esterno, tutto finisce in carcere. A mio avviso, si andrà verso un miglioramento, però, servirà ancora molto tempo.

 

Misa Poltronieri: concludendo, secondo lei oggi il carcere ha una valida funzione rieducativa per i detenuti?

Sonia Ambroset: sulle attività educative non mi esprimo, perché non credo nel ruolo educativo del carcere.

 

 

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