Pagine sul carcere

 

Reinserimento e spazio operativo dell'orientatore - tutor

 

La relazione d’aiuto alle persone in difficoltà è stata ed è oggetto di molta della letteratura psico sociale attualmente in uso nel mondo degli operatori delle cosiddette helping professions. Una letteratura articolata, che propone modi diversi di intendere obiettivi e strumenti a seconda delle scuole teoriche di riferimento che, a loro volta, basano le proprie elaborazioni su modi diversi di concepire l’idea stessa di "persona". A questa letteratura rimandiamo per chi volesse approfondire questo tema .

In questa sede ci limitiamo a proporre un contributo che possa avere una consistente valenza operativa e fortemente mirato al contesto di cui ci stiamo occupando: il re inserimento di persone che devono emanciparsi da una situazione detentiva per tornare alla comunità civile da cui sono state per periodi più o meno lunghi esclusi.

È doveroso allora rendere esplicito l’orientamento teorico da cui si parte e la filosofia che sottende l’ipotesi formativa stessa da cui prendono spunto questi materiali.

In questa sede si assume una concezione della persona come soggetto capace di azione sociale che, anche quando compie azioni illecite e ne subisce le conseguenze psicologiche, sociali e istituzionali, può maturare nuove teorie sul mondo e sulla propria posizione nella comunità civile.

Le teorie e i metodi a cui si fa riferimento coerentemente con questa ipotesi, sono quelle elaborate nell’ambito della psicologia dei costrutti personali, la psicologia dell’azione e la psicologia di comunità. Non mancano collegamenti con discipline quali la criminologia, soprattutto con i contributi elaborati dalla criminologia critica e con le teorie e i metodi del servizio sociale.

Concetto che accompagna l’orientamento che qui viene proposto e che funge da linea-guida generale per l’operatività è quello di empowerment.

Da questo concetto, che esprime una filosofia dell’aiuto alla persona affrancata da istanze puramente assistenziali o orientata in termini moralistici, emerge una concezione laica in cui trova spazio anche la dimensione di valori quali la garanzia dei diritti umani, la partecipazione, la responsabilità personale e collettiva, l’idea di cittadinanza attiva.

Si parte cioè dal presupposto che occuparsi del reinserimento dei detenuti significa prestare una reale e concreta attenzione anche alle vittime di reato nella consapevolezza che la semplice permanenza in carcere non garantisce affatto (semmai inficia ulteriormente) l’adesione alle regole sociali. La restituzione alla comunità di persone "socialmente competenti", capaci di individuare modalità di emancipazione personale attraverso azioni diverse da quelle illecite, in grado di partecipare alla costruzione di regole sociali condivise, può passare solo attraverso la sperimentazione concreta di relazioni significative e opportunità sociali che amplino le possibilità di scelta. Questo non può che tradursi in un beneficio collettivo che vede carcere e comunità civile come sistemi comunque interagenti in cui l’idea stessa di "reclusione a vita" si traduce in una sterile illusione di chi non coglie il crimine anche come un’espressione delle contraddizioni sociali, ma soltanto come un fenomeno "altro" da se (risultato soltanto di psicopatologie o di scelte criminali soggettive) e che solo attraverso la segregazione deve essere gestito. Chi oggi è ristretto in carcere fa invece parte della società e ad essa tornerà e questa è una ragione sufficiente per occuparsene.

Investire energie e risorse per il reinserimento di persone detenute significa allora investire per la comunità civile nel suo insieme comprese le vittime.

Come tradurre questa logica in operatività? Come sviluppare un processo che, attraverso il supporto alla persona che esce dal carcere, sviluppi anche per la comunità civile?

Le riflessioni che seguono sono un tentativo di sperimentare modalità di aiuto alla persona orientate in questo senso e come tali vanno intese: ipotesi di lavoro in cui trovino spazio tre requisiti a nostro avviso indispensabili a coloro che vogliono cimentarsi in questo lavoro.

Umanità, per ricordarsi che chi infrange le nonne condivide la nostra stessa natura e che ciò che resta in un percorso di accompagnamento è spesso il "senso" della relazione umana che si è reciprocamente sperimentata.

Intelligenza, intesa come capacità di sviluppare la nostra ricerca sul mondo attraverso il collegamento tra il sapere, l’essere e il fare. Passione, per essere consapevoli che il lavoro a contatto con le istituzioni totali poggia su motivazioni che non possono che andare al di là dei riconoscimenti professionali o dei risultati che si ottengono con le persone. E al di là significa al senso di giustizia che ciascuno di noi ha dentro di se.

 

Processo di aiuto e relazione di aiuto

 

La differenza tra i due termini si rende necessaria per non confondere l’intero percorso di aiuto con la semplice utilizzazione di un suo strumento quale è la relazione tra operatore e detenuto.

L’aiuto alla persona è l’obiettivo del nostro agire, la relazione soltanto uno dei possibili strumenti che abbiamo a disposizione. Non l’unico anche se sicuramente uno dei più importanti.

Parlare di processo significa infatti parlare di una molteplicità di interlocutori coinvolti. Ogni volta che ci si appresta ad accompagnare una persona nella fase dei reinserimento, si diventa parte di un sistema generale di relazioni: accanto a noi lavorano operatori istituzionali (magistrati, assistenti sociali, educatori, ecc.), operatori informali (volontari, parenti, amici, datori di lavoro, ecc. ), operatori sociali del territorio ( operatori dei servizi, del privato-sociale, ecc.).

La relazione del tutor con il detenuto è dunque inserita in un contesto molto più ampio con cui è necessario saper interagire efficacemente.

Parlare di processo significa inoltre riferirsi all’idea del movimento, di qualcosa che si costruisce nel tempo e che è suscettibile di modifiche. Accompagnare una persona nel suo percorso di uscita dal carcere significa infatti essere disponibili a seguirne i cambiamenti, imparando a definirli e valutarli reciprocamente.

Fare riferimento al concetto di processo significa inoltre prestare attenzione al modo in cui si fanno le cose, più che alle cose che si fanno. Le vere acquisizioni in termini di empowerment sono le elaborazioni che la persona costruisce attraverso ciò che fa e i mutamenti che queste riflessioni producono sul piano dell’auto percezione. L’aumento di autostima, la percezione di se come padroni delle proprie azioni, l’idea di se come protagonista delle proprie scelte (qualunque scelta la persona decida di fare), la possibilità di far spaziare il pensiero su più livelli, la percezione di avere più opportunità di fronte e di non essere determinatamente etero definiti; si tratta di interpretare questi elementi come scopo del processo di aiuto, qualunque sia il programma di reinserimento che viene impostato.

II processo di aiuto in un contesto di controllo È fondamentale contestualizzare il lavoro del tutor rispetto alla dinamica aiuto controllo che caratterizza il lavoro in questo contesto.

Ci si occupa infatti di persone che sono sottoposte ad un controllo formale ben preciso, esercitato da organi ufficiali, in grado di incidere pesantemente sulla vita della persona.

Non solo, le stesse persone sono sottoposte anche a forme di controllo informale che possono essere altrettanto rigide e pesanti (qualche volta ancora più dure del controllo formale).

Basti pensare che il diritto penale nasce proprio per difendere i colpevoli di reato dalla reazione sociale della collettività, che ricorrerebbe a pene ben più severe della privazione della libertà (la pena di morte, il linciaggio, ecc.).

È con questa forma di controllo che l’orientatore tutore deve fare i conti in modo più consistente. È con la diffidenza, con la sfiducia della collettività, con il desiderio di vendetta, che deve portare avanti una sorta di sfida quotidiana.

Una sfida che lo costringe a comprendere anche le proprie istanze di controllo, la propria difficoltà ad avere a che fare con persone che hanno manifestato un comportamento antisociale, magari violento. Di fronte ad un omicida, ad un rapinatore, ma anche di fronte a un tossicodipendente-spacciatore, l’operatore stesso può chiedersi se sia "giusto" lavorare in termini di aiuto e confrontarsi cosi con le proprie istanze punitive.

Come confrontarsi, allora, con questa dicotomia? chiarendo la cornice entro la quale si lavora: l’obiettivo è l’aiuto, il controllo è uno strumento che viene utilizzato, formalmente e informalmente, ma solo uno strumento.

E come tale deve essere reso esplicito, contrattato, reciprocamente verificato.

 

Quale spazio operativo per l’orientatore-tutor?

Parliamo volutamente di "spazio operativo" e non di ruolo per chiarire fin da ora lo spirito con cui l’argomento viene trattato: non si tratta di promuovere una nuova figura professionale. Non è infatti interesse di chi scrive aumentare il numero di categorie professionali attualmente esistenti nel sociale (già troppo numerose) quanto invece sviluppare competenze trasversali che possono essere esercitate da chiunque sia interessato a cimentarsi in un questo compito di supporto e accompagnamento alla persona. Proprio per questa ragione l’orientatore-tutor può essere chiunque sia "competente" su alcune funzioni, indipendentemente dall’esistenza di un ruolo professionale riconosciuto.

Si tratta di persone che dispongono di alcune capacità legate alla dimensione relazionale (non solo verso il detenuto ma anche rispetto agli altri interlocutori coinvolti nel reinserimento) e al processo di accompagnamento "operativo" della persona che esce dal carcere.

In questo senso l’orientatore-tutor può fare ciò che tutti gli altri non possono fare: utilizzare a pieno la dimensione dell’informalità (pur sapendosi connettere con le consistenti variabili formali e istituzionali che fanno parte del sistema penitenziario ).

È un operatore e non un semplice volontario (anche quando esercita la sua funzione a questo titolo) perché dispone di competenze di cui è consapevole e costruisce percorsi "intenzionali" e rigorosi sul piano del metodo.

È un operatore e non l’espressione di un servizio, perché può lavorare in una logica di contrattazione libera con la persona che accompagna (non ha orari di apertura e chiusura, non ha compiti istituzionali da rispettare, non ha limiti relazionali o setting formalmente precostituiti può lavorare con chiunque e in ogni luogo utile ai fini del reinserimento ).

È un operatore generico e non il portatore di un profilo professionale specifico (non è un terapeuta, non è un educatore, non è un assistente sociale, non è un organo di polizia o della magistratura).

L’orientatore-tutor non si definisce dunque attraverso un ruolo formalmente definito, ma attraverso una funzione che è quella dell’accompagnamento alla persona in fase di reinserimento, all’interno della quale svolge alcuni compiti operativi che non si sovrappongono a quelli di altri.

In questa prospettiva la figura che qui viene proposta rientra nella grande area di alcune nuove funzioni sociali che possono essere esercitate nella cornice dell’aiuto "non professionale" come la mediazione, l’operatività di strada, l’auto-aiuto.

Tutte funzioni che possono essere esercitate sia da operatori professionali, sia da semplici cittadini: purché in entrambi i casi siano capaci di esercitarle.

Il che significa che, nell’esercizio della funzione di orientamento e tutoring, l’operatore professionale potrà trovarsi nelle condizioni di spogliarsi di un ruolo fondamentale definito e il cittadino dovrà vestirsi di competenze metodologiche assimilabili a quelle di alcune professioni.

Da questo punto di vista 1’unica variabile che ci sembra incompatibile con questa funzione è quella dell’assunzione di compiti di controllo formale (e con questo termine intendiamo compiti previsti giuridicamente). Non è cioè pensabile che chi deve rispondere all’autorità giudiziaria possa contemporaneamente essere "libero" di gestire la dimensione della informalità e utilizzarla pienamente, cosi come non è possibile pensare che una relazione "dovuta" da parte del detenuto sia gestibile come una relazione "scelta".

Proprio da questa assunzione di fondo e proprio per chiarire in che termini l’orientatore-tutor può essere realmente di supporto ai percorsi di reinserimento, riteniamo vadano chiarite le pre-condizioni necessarie entro le quali questa figura deve muoversi per non essere o diventare semplicemente un ruolo aggiuntivo a quelli già esistenti.

Da queste sarà possibile far discendere obiettivi, compiti e procedure coerenti cosi come un percorso formativo efficace.

Le pre-condizioni per favorire l’accompagnamento Si tratta ora di comprendere concretamente gli elementi di "differenza" che devono caratterizzare la relazione tra persona detenuta e orientatore-tutor rispetto al sistema di relazioni istituzionali che nella fase di reinserimento si costruiscono.

Il consenso del detenuto l’orientatore-tutor è una delle possibili risorse di cui il detenuto può avvalersi e proprio per questo deve poter corrispondere ad una sua scelta. Ciò vuoI dire che, a fronte di un’offerta che può essere proposta anche da operatori istituzionali, la decisione del detenuto di avvalersene o meno non deve essere utilizzata in modo ricattatorio ne dal detenuto

stesso ne dall’istituzione o da altri interlocutori impegnati nel programma di re inserimento.

Da questo punto di vista una corretta procedura dovrebbe prevedere che i detenuti in fase di uscita (per permessi e/o misure alternative o per fine pena) siano messi al corrente di questa possibilità e che le fasi successive facciano parte di una contrattazione libera tra tutor e detenuto. Solo a seguito di un reciproco accordo è possibile passare al coinvolgimento dell’orientatore-tutor nel percorso di reinserimento secondo le ipotesi che da entrambi sono state condivise.

La libera richiesta da parte del detenuto, in una cornice di libera offerta, consente quindi di stabilire una relazione realmente contrattuale, di scambio, tra le due persone che insieme decidono di camminare pur avendo chiaro che è il richiedente a manifestare una necessità di aiuto.

L’esplicitazione delle responsabilità legate al controllo Nella consapevolezza che l’attività di supporto all’interno di un sistema di controllo formale non consente di negare quest’ultima dimensione, è fondamentale che L’orientatore-tutor renda esplicito il livello di responsabilità che si assume anche rispetto a questa variabile, sia nei confronti della persona che dovrà accompagnare, sia nei confronti degli operatori istituzionali.

In questo senso tutto ciò che può essere interpretato come controllo formale può trovare un posto all’interno della relazione di accompagnamento, purché sia reso esplicito e concordato anche con la persona detenuta: niente è dunque impedito all’orientatore-tutor, cosi come niente può essergli imposto dagli organi istituzionali. Ogni cosa deve essere comunque resa esplicita di modo che tra questa figura e il detenuto il rapporto possa sempre essere trasparente.

Il controllo formale sarà dunque una variabile consapevolmente utilizzata secondo le modalità più funzionali agli obiettivi del reinserimento.

Altro aspetto è relativo al controllo informale, cioè alla dimensione del controllo insita strutturalmente in qualunque relazione d’aiuto tra le persone.

Si tratta in questo caso di essere consapevoli delle proprie istanze punitive e di controllo interne, degli elementi di ricatto affettivo che una relazione può portare con se, del senso globale del proprio essere attratti da un lavoro di questo genere.

È quanto un adeguato percorso formativo dovrebbe mettere in evidenza e rendere gestibile da parte dell’orientatore-tutor.

L’adeguata procedura per il rispetto di queste ipotesi è che i programmi di reinserimento che prevedono 1’utilizzo dell’orientatore-tutor e che vengono formalizzati, contengano per iscritto il tipo di accordo preso tra detenuto, orientatore-tutor e operatore istituzionale e/o dei servizi territoriali coinvolti nel programma rispetto alla gestione del controllo.

Nel caso di supporto alla persona svincolato da interazioni con altri servizi (e quindi basato sull’esclusiva richiesta del detenuto) questa questione va chiarita unicamente tra detenuto e orientatore-tutor (in ogni caso è compito di quest’ultimo introdurre il problema se la persona in fase di uscita o già uscita dal carcere mostra di non avere chiara la sua posizione).

Distanza e vicinanza relazionale e orientamento alla soluzione dei problemi Il fatto che l’orientatore-tutor possa non essere una figura necessariamente professionale, richiede una grande consapevolezza circa i limiti che questa funzione può avere e ciò sia in caso di coinvolgimento in un programma formale, sia in caso di una relazione diretta ed esclusiva tra operatore e persona in fase di uscita dal carcere.

Benché una formazione professionale non sia affatto garanzia di capacità relazionale (molti operatori psico-sociali dispongono di saperi e tecniche ma non necessariamente della empatia necessaria alla relazione d’aiuto o del giusto equilibrio tra distanza/vicinanza) è indubbio che la conoscenza teorica di alcuni meccanismi relazionali può facilitare la consapevolezza e dunque la visibilità dei percorsi messi in atto.

Proprio per questa ragione siamo convinti che chi si occupa di reinserimento debba comunque essere adeguatamente e specificamente formato a questo compito.

La dimensione relazionale (individuale e collettiva) è sicuramente la prima area che necessita di formazione: chi svolge una funzione di accompagnamento deve essere in grado di comunicare efficacemente e quindi di conoscere le proprie modalità comunicative, deve saper gestire il livello di coinvolgimento affettivo che inevitabilmente si instaura nel rapporto, deve cogliere le modalità ricattatorie (proprie e altrui) per riuscire a costruire una relazione "adulta", deve conoscere molto bene le proprie motivazioni a questo tipo di lavoro, deve essere in grado di gestire consapevolmente il momento della separazione. In sostanza l’orientatore-tutor , sul piano relazionale, deve essere innanzitutto un buon osservatore di se stesso e deve avvalersi dell’aiuto di colleghi che fungano da specchio e lo aiutino a conoscere i propri meccanismi relazionali.

Questo è quanto il percorso formativo, attraverso esercitazioni, simulate, ecc., vuole promuovere inizialmente. Successivamente va previsto un grande utilizzo del lavoro in equipe e della supervisione.

Il livello relazionale è solo uno dei piani su cui la formazione deve agire: la relazione è pur sempre uno strumento e non un fine. Uno strumento volto alla soluzione dei problemi perché questo è quanto serve alla persona che esce dal carcere.

Si parte cioè dal presupposto che il senso stesso dell’attività di accompagnamento sia il supporto nelle fasi di crisi all’uscita dal carcere, che possono essere cosi elencate:

. il momento dell’uscita e i problemi concreti che la persona può incontrare, specialmente quando appartiene a fasce molto emarginate (la casa, un posto per dormire, l’assenza di denaro, ecc. )

L’impatto con la famiglia che, problematica o meno in precedenza, resta una fonte di emozioni forti soprattutto dopo una lunga detenzione . l’impatto con il mondo del lavoro. Di gran lunga uno dei problemi più frequenti. Spesso la persona che esce dal carcere fatica ad accettare il mondo del lavoro e le sue regole, il dover dilazionare nel tempo la soddisfazione di alcuni bisogni, gestire rapporti con i colleghi di lavoro e ancora di più con i datori di lavoro. Spesso inoltre la persona è costretta ad accettare un lavoro che non è quello che vorrebbe, a doversi confrontare con il fatto che l’essere stata in carcere non l’ha privata solo della libertà ma di molte altre cose : il mantenimento dei contatti con i servizi. L’aderire al programma di reinserimento, il doversi presentare agli appuntamenti con l’assistente sociale, mantenere gli impegni legati alle prescrizioni del magistrato, tutti momenti concreti di possibile difficoltà . la ripresa di rapporti sociali (amici, vicini, ecc.) che si presentano sempre come fonte di difficoltà o perché inesistenti, o perché vincolati a schemi tipici del mondo dell’illegalità . la ripresa o il desiderio di una vita affettiva e sessuale a cui la detenzione, specie se protratta nel tempo, ha tolto dimestichezza In tutte queste situazioni e altre che si possono incontrare, l’orientatore-tutor potrebbe essere chiamato come supporto concreto. Un supporto che si esprime attraverso momenti di consulenza, momenti di accompagnamento materiale, momenti di riflessione guidata. In ogni caso un supporto orientato alla soluzione dei problemi attraverso lo sviluppo delle capacità stesse della persona.

Il metodo sottostante questa ipotesi è quello del problemsolving che deve diventare una modalità operativa utile per la persona che esce dal carcere che, attraverso il lavoro dell’orientatore-tutor, imparerà a:

a) definire il problema

b) raccogliere tutte le informazioni per esaminarlo

c) ridefinirlo dopo averlo esaminato

individuare alcune ipotesi risolutive

sperimentarle .

verificarne l’esito Si tratta cioè di aiutare la persona a "fare esperienza" attraverso l’elaborazione dei propri passaggi nell’affrontare le cose della vita.

In questa prospettiva l’orientatore-tutor deve essere in grado di guidare la persona in questo percorso e deve dunque essere una persona concretamente competente nel "muoversi" all’interno dei problemi della vita quotidiana delle persone.

Obiettivi e compiti dell’orientatore-tutor Si tratta di un operatore che aiuta la persona a muoversi nel sistema di relazioni entro le quali la stessa si trova inserita all’uscita dal carcere. Per chi esce dal carcere si tratta di ricostruire relazioni precedenti, mantenere relazioni di carattere istituzionale, sviluppare nuove relazioni nel mondo del lavoro o nelle strutture che la accolgono al di fuori della famiglia e chi la accompagna deve poterle fornire un supporto nelle inevitabili situazioni di crisi. È allora possibile tentare una definizione di questo ruolo a partire dall’analisi di questi sistemi relazionali e individuando i possibili compiti dell’orientatoretutor che nell’esercizio del suo ruolo non fa il terapeuta, non fa l’educatore, non fa l’assistente sociale, (anche se può disporre dei titoli per fare tutto questo)... e tanto meno fa il giudice, il poliziotto o l’avvocato.

L’orientatore-tutor è, appunto, la persona che aiuta ad orientarsi e che accompagna nel percorso risolutivo dei problemi.

Obiettivo cardine del suo lavoro è rendere la persona socialmente competente.

Compiti effettivi legati a questo obiettivo possono essere i più vari (aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche, orientamento e accompagnamento ai servizi, orientamento e ricerca del lavoro, mediazione nelle situazioni di crisi, ecc. ), ma devono essere orientati in modo specifico alL’empowerment.

Nella sostanza, di fronte alla presa di decisione su cosa sia meglio fare, il tutor dovrebbe sempre domandarsi: quale competenza acquisisce la persona attraverso il mio intervento? Come posso fare in modo che la prossima volta faccia da sola ciò che oggi facciamo insieme? Come posso rendere consapevole la persona delle abilità che ha acquisito?

In questo senso l’orientatore-tutor può eseguire qualunque compito concreto, purché sia fin dall’inizio orientato in questa direzione.

La questione più rilevante a nostro avviso, rispetto a obiettivi e compiti, è il livello di integrazione tra quanto fa il tutor e-quanto fanno altri operatori che lavorano sul territorio.

Ci sono servizi che orientano e inseriscono nel mondo del lavoro, ci sono servizi che offrono counseling psico-sociale, ci sono associazioni che offrono occasioni di aggregazione, istituzioni che offrono formazione, ecc... il territorio offre una rete possibile di intervento e dunque l’orientatore-tutor non deve intendersi come un sostituto, ma piuttosto come colui che connette la persona con questi sistemi.

Stabilire connessioni efficaci vuoI dire agire intenzionalmente sulla persona (spesso chi viene dal carcere è già stato nel circuito delle risorse territoriali, a volte non vuole più saperne, altre volte è molto sfiduciato, altre volte ancora ha molti stereotipi che gli impediscono perfino di sperimentare dei percorsi possibili) perché si attivi in questa direzione e direttamente con le risorse esterne perché accolgano la persona.

Da ciò si desume che l’orientatore-tutor deve essere molto competente rispetto alla rete esterna. Deve cioè essere in grado di reperire informazioni, aggiornarle, comunicarle: in questo senso L’orientatore-tutor è innanzitutto un cittadino competente e responsabile che aiuta chi esce dal carcere a diventarlo. E lo aiuta attraverso un percorso concreto, programmato nel tempo, verificabile nei risultati.

Il mondo su cui la competenza deve necessariamente essere molto alta è quello del lavoro dal momento che è soprattutto da questo che dipende la reale emancipazione della persona.

Infine, il carcere, con le sue dinamiche e con ciò che lascia dentro la persona, deve essere per l’orientatore-tutor un mondo conosciuto perché gli consente di acquisire credibilità e anche capacità di contrattazione con la persona. L’esperienza detentiva si presta infatti ad essere analizzata, utilizzata, ricordata, minacciata, negata... un pezzo di vita che, se non ci è estraneo, può essere invece oggetto di elaborazione proficua.

Compito dell’orientatore-tutor è restituire questa esperienza con i suoi significati alla persona, consentirle in questo modo di non sentirsi semplicemente un detenuto ma piuttosto una persona che ha vissuto l’esperienza detentiva e può affrancarsene nonostante le oggettive difficoltà che incontra alL’uscita. Può non rimanere vittima di qualcosa che ha contribuito a costruire, solo individuando anche la propria parte attiva nel percorso detentivo e vedendo questa come specchio delle sue possibilità per restarne fuori.

In questo senso l’orientatore-tutor non è colui che giustifica, ma piuttosto colui che "prende atto" della realtà e da questa parte per promuovere il cambiamento possibile insieme alla persona che esce dal carcere. Un lavoro a quattro mani che viene costruito con intenzionalità e razionalità all’interno di una cornice relazionale umanamente significativa.

La possibile procedura per l’orientatore-tutor poiché quanto fin qui esposto deve tradursi in passaggi operativi concreti, è importante che il lavoro dell’orientatoretutor segua un percorso metodologico visibile e controllabile.

In questa sede si evidenziano i passaggi che a nostro avviso sono più significativi e che possono tuttavia essere modificati sulla base dell’esperienza specifica che ciascun operatore farà.

l) La fase della richiesta :

Può giungere dal detenuto stesso ( dentro o fuori dal carcere), da un suo familiare, da operatori dei servizi. Può giungere da più fonti, ma è fondamentale che il detenuto ne sia a conoscenza e che accetti di effettuare il primo incontro con l’operatore. Solo con il consenso del detenuto sarà possibile dare avvio al lavoro. Una volta ricevuta la richiesta, dunque, l’orientatore-tutor proporrà l’incontro diretto con la persona interessata (dentro o fuori dal carcere). In ogni caso è importante a nostro avviso che la figura del tutor non venga utilizzata in termini di premio-punizione o in termini di efficacia rispetto all’attivazione di misure alternative. Meno il lavoro del tutor è connesso formalmente alle procedure giuridiche, meglio è; poiché tuttavia è probabile che ciò sia poco salvaguardato è indispensabile che, laddove il suo ruolo venga formalmente inserito, sia specificato sempre per iscritto che il mantenimento del rapporto o la sua interruzione non possono essere usati come indice di non aderenza al programma di reinserimento. Il detenuto deve essere libero di scegliere se avere al proprio fianco il tutor oppure no.

Salvaguardare questo aspetto significa consentire a questa figura di non essere sovrapposta alle altre e, conseguentemente, consentirle lo spazio operativo utile per lavorare nel qui e ora e nell’informalità.

2) Il primo incontro: la fase dell’aggancio e del contratto Appositamente chiamiamo questo momento 10 incontro e non 10 colloquio. È molto importante, a nostro parere, che il clima che si instaura inizialmente sia diverso da quello che il detenuto respira con altri operatori. Nel primo incontro, che può avvenire in carcere, ma anche fuori, la persona sostanzialmente deve capire con chiarezza che:

  1. non è obbligatorio farsi aiutare

  2. lo stato detentivo è un punto di partenza sul quale il tutor non esprime valutazioni (non ci interessa sapere se la pena è giustificata o no, ci interessa solo partire da un dato di realtà che avrà un peso all’esterno ed è solo di questo che dobbiamo occuparci) il piano di lavoro per l’esterno si costruisce in due e si definisce chi fa cosa ogni volta che la persona non sa sbrigarsela avrà il tutor al suo fianco, ma nella prospettiva che poi si muova da solo perché il rapporto non sarà eterno (si può ipotizzare un intervento che non superi l’anno di attività) il tutor è in grado di accogliere i bisogni umani (di ascolto, di racconto, di relazione umana in generale) ma i momenti di "sfogo" dovranno trasformarsi in momenti di crescita ed emancipazione il tutor lavora necessariamente in modo integrato (con altri operatori, ma anche con datori di lavoro, con magistrati, ecc. ), ma è esplicitamente in rapporto diretto con la persona detenuta e decide autonomamente come muoversi con gli altri operatori. La sua credibilità agli occhi degli altri tuttavia (è bene che questo il detenuto lo sappia con chiarezza) è strettamente connessa alla capacità della persona detenuta di mantenere fede agli impegni presi. Si tratta di un reale scambio tra tutor e detenuto.

Responsabilità dell’orientatore-tutor è garantire il massimo della competenza e della trasparenza possibile, responsabilità del detenuto è rispettare gli impegni presi e, in caso di difficoltà, consentire all’orientatore-tutor di intervenire prima che le cose accadano (il tutor non ripara i guasti, cerca piuttosto di prevenirli e in questo solo il detenuto può aiutarlo ) non ci sono facilitazioni giuridiche attraverso il tutor, tuttavia il magistrato di sorveglianza o anche gli operatori del CSSA o del territorio possono individuare la sua presenza come una sorta di "garanzia" rispetto alla tenuta del programma del detenuto. Si tratta di un dato di realtà che può costituire un Vincolo ma anche un’opportunità. Sta al tutor utilizzarla in questi termini rendendola oggetto di contrattazione con il detenuto.

3) La definizione dei problemi legati alL’uscita e delle priorità Una volta chiarita la scelta da parte del detenuto di avvalersi del supporto del tutor, diventa possibile definire i problemi più importanti e le priorità con cui si lavorerà all’uscita.

È molto importante che su ogni azione che verrà intrapresa ci sia la massima trasparenza da parte dell’orientatore-tutor. Il detenuto saprà sempre tutti i passaggi, le persone, le decisioni che lo riguardano; sarà cura dell’operatore individuare le modalità comunicative più adatte, ma in ogni caso rendere edotta la persona di quanto succede è il primo passo per renderla davvero socialmente competente.

Agli occhi dell’orientatore-tutor il detenuto in fase di uscita è un cittadino che sta per rientrare nella comunità civile. Suo compito sarà metterlo nelle condizioni di farlo il meglio possibile. Ciò vale naturalmente quando c’è del tempo a disposizione ( orientativamente sarebbe utile poter lavorare con la persona detenuta a due mesi almeno dall’uscita prevista).

Laddove invece l’incontro avvenga sull’emergenza, l’operatore cercherà di risolvere con la persona i problemi più urgenti e solo successivamente si occuperà di definire un percorso. In tal caso è molto importante che il qui e ora della relazione mantenga aperta la possibilità di ulteriori contatti e che, una volta risolto il problema (dove dormire questa notte, come rientrare a casa, ecc.) la persona uscita dal carcere possa chiedere aiuto in modo più organico.

4) L’accompagnamento nel percorso Ciò che ci sembra importante sottolineare è che, qualunque sia il percorso che si farà con la persona, ogni azione dell’orientatore-tutor deve essere "intenzionale", deve cioè avere uno scopo preciso. In generale deve consentire alla persona di aumentare la propria consapevolezza circa le abilità che sta acquisendo: si può anche solo andare insieme all’ufficio di collocamento e ai centri per l’impiego, ma rendere questa azione significativa restituendo alla persona i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza. Ciò che si fa insieme deve cioè essere oggetto costante di elaborazione. Il fare deve diventare pensiero perché la persona che esce dal carcere, dal momento che incontra molti problemi, deve acquisire un modo di pensare orientato alla soluzione dei problemi.

Dalla denuncia delle difficoltà, dalla commiserazione di se, dalla sfiducia nelle proprie possibilità, dal senso di predestinazione (tanto non serve a niente), dall’attribuzione all’esterno delle responsabilità (sono gli altri che mi mettono in queste condizioni)...la persona deve passare alla presa d’atto della realtà (la carcerazione non è solo privazione momentanea della libertà ma anche fonte di altri disagi), al riconoscimento della propria parte attiva (ho fatto delle scelte prima, posso fame ora), all’assunzione di responsabilità (ciò che posso lo devo fare), all’aumento di autostima (ho limiti ben precisi, ma anche delle capacità da mettere in moto ), alla scelta di campo (per stare fuori dovrò tenere duro su molte cose e accettare di dilazionare nel tempo, di mediare, di tollerare ansie e frustrazioni).

Tutti passaggi che l’orientatore-tutor deve favorire durante l’accompagnamento della persona e anche attraverso il lavoro di mediazione che farà con coloro che sul territorio avranno a che fare con la stessa.

5) La chiusura del rapporto Il momento della chiusura deve essere presente fin dall’inizio sia nell’operatore che nella persona uscita dal carcere. La dimensione del tempo è importante quanto quella dello spazio e in un percorso orientato all’empowerment il tempo diventa una possibile misura di quanto si sta promuovendo nella persona. Darsi dei tempi significa infatti operare sul meccanismo dell’anticipazione che sta alla base della capacità progettuale della persona, significa mirare alla concretizzazione, significa passare dall’idea al risultato.

Un problema maggiore per chi sta uscendo dal carcere è un vissuto rispetto al tempo che riconduce al tempo della detenzione, dilatato, regolamentato eppure spesso vuoto, non più vincolante (ciò che non accade oggi può accadere domani) perché dominato dall’impotenza (il tempo del detenuto dipende interamente dal tempo dell’istituzione).

Un detenuto non è padrone del suo tempo che, paradossalmente, è 1’unica cosa che gli rimane dal momento che lo spazio gli viene tolto.

Da questi vissuti possono nascere, quando la persona ritorna alL’esterno, le reazioni più varie. Ci sono persone che ansiosamente cercano tutto e subito, che non possono più aspettare, ce ne sono altre che vivono sospese in attesa che le cose cambino da sole con la netta impressione che il tempo non sia più governabile, altre ancora che non tollerano flessibilità rispetto a tempi definiti a cui si aggrappano ossessivamente.

In ogni caso gestire il tempo è uno dei problemi che l’orientatore-tutor deve porsi. Per questo riuscire a darsi un inizio e una fine consente sia all’operatore che alla persona di trovare una reciproca sicurezza, una cornice entro la quale stabilire anche i tempi dei diversi passaggi.

La chiusura diventa allora un evento anticipato, segno del successo rispetto al raggiungimento degli obiettivi condivisi, oppure segno di una scelta diversa da parte della persona che tuttavia sarà in grado a quel punto di decidere da protagonista (anche se sul palcoscenico dell’illegalità).

La chiusura come simbolo che la detenzione è una esperienza che può anche essere transitoria e che dunque si può diventare di nuovo un cittadino e non un "assistito", Nulla impedisce che il rapporto umano continui, ma il percorso del reinserimento deve costituire un pezzo di vita, non una paradossale occasione di costituzione di un’identità passiva e dipendente dai servizi e dalle istituzioni.

Conclusioni I contenuti fin qui emersi vogliono costituire soltanto una traccia di riflessione per coloro che, sia a titolo professionale che a titolo volontario, intendono cimentarsi nel lavoro di accompagnamento a persone che escono dal carcere.

Ciò che riteniamo fondamentale è che chi opera in questa direzione tenga alta l’attenzione su quanto lavora in una prospettiva reale di empowerment oppure quanto, anche inconsapevolmente, finisce per produrre meccanismi di dipendenza.

Se è vero che l’empowerment rinvia alla capacità di incidere attivamente sulla propria vita, un sistema di verifica per l’orientatore-tutor del reinserimento risiede nella capacità di porsi costantemente una domanda: quali sono le competenze sociali che sto sviluppando con questa persona? Tra quanti possibili punti di vista questa persona potrà scegliere?

 

 

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