Racconti da Piacenza

 

Parole oltre il muro

 

La funzione "terapeutica" della scrittura in carcere è un dato di fatto riconosciuto da tempo: scrivere "fa bene alla salute", anche in una situazione pesante e densa di sofferenza come quella della detenzione. Ma scrivere può servire anche a costruire un rapporto più forte tra il "dentro" e il "fuori", e questo è successo a Piacenza, con un concorso di scrittura indetto tra i detenuti del carcere "Le Novate", che ha coinvolto, in qualità di giurati, gli studenti di alcune scuole superiori cittadine. Sono stati infatti i ragazzi dell’Istituto Martora, dei Licei Melchiorre Gioia e Respighi e del Liceo pedagogico Colombini, coordinati dai rispettivi insegnanti, a operare la prima selezione, individuando otto racconti, tra i quali la giuria ufficiale ha scelto poi i vincitori. E sono stati i ragazzi, tanti ragazzi delle scuole, a farsi carico di leggere testi e poesie di detenuti e di accompagnare con la musica la premiazione del concorso, avvenuta il 6 maggio nella sala della Fondazione di Piacenza e Vigevano.

I racconti hanno quasi tutti spunti autobiografici, e questo la dice lunga sulla voglia delle persone "ristrette" di raccontarsi, ma anche di trovare ascolto, di parlare a quelli che stanno fuori e di dare dignità alla propria vita attraverso la parola, come se il bisogno più forte e sentito fosse quello di riprendere una comunicazione interrotta con "il resto del mondo".

"Compagno", il racconto di Mirko che ha vinto il primo premio del concorso, perché ha ritmo, forza narrativa e originalità, è "la storia di Vincenzo, il classico "zanza", così dicono a Milano: tante truffe da poche lire ed una sola da raccontare". Secondo classificato è stato Enrico, con il racconto "È un lusso", durissimo "diario" di un tossicodipendente che non ha nessuna pietà di se stesso.

Compagno

 

Questa è la storia di Vincenzo, il classico "zanza", così dicono a Milano; tante truffe da poche lire, e una sola da raccontare quando riesce a vendere, una crosta orribile spacciandola per un Modigliani autentico ai danni di un banchiere svizzero. Sono passati gli anni ma, con quel colpo, si è comprato una casetta niente male fuori città e con giardino. Lo Stato però non era rimasto a guardare; Vincenzo aveva accumulato un bel po’ di condanne e questa (l’ultima a sentir lui) era proprio lunga 5 anni e 4 mesi.

Ormai da due anni il Ministero l’aveva assegnato al carcere di Sulmona (600 km da casa) ma andava bene così. Vincenzo non era sposato; tanti amori ma mai quello giusto e così, a 63 anni, non pensava proprio di poter cambiare.

L’unica persona che ogni tanto andava a fargli visita era una sua vecchia cugina, Erminia. Era stata una bella donna e, in gioventù, se non fosse stato per quel grado di parentela, Vincenzo l’avrebbe certamente corteggiata ma ora, invecchiando, si era incattivita dalla solitudine ed era diventata tanto avara da far invidia a un genovese.

Quando andava da Vincenzo pagando di tasca sua il biglietto Milano - Sulmona era solo perché sperava di ereditare la casa col giardino e questo Vincenzo lo sapeva. Erminia era venuta in visita la settimana prima ed era certo che, per un paio di mesi, non si sarebbe vista; Vincenzo sorrise al pensiero.

Tra le tante galere di cui era stato ospite, Sulmona non era certo il meglio ma neppure il peggio. Vincenzo lavorava nella calzoleria, un lavoro adatto a chi come lui cominciava a sentire l’età e qualche problemino al cuore. Da circa un anno divideva la cella n° 22 con un compagno: Nicola.

Nicola era sicuramente un tipo strano che il destino gli aveva assegnato: molto magro e di colorito scuro un po’ orientale. Non parlava mai, non usciva mai di cella, passava ore ed ore in un angolo vicino alla finestra, quasi studiasse le montagne circostanti. Soprattutto si esprimeva solo a gesti, la sua mimica era tanto chiara quanto bizzarra:

si piegava a sinistra per mostrare approvazione, a destra se non era d’accordo e quando era felice vibrava tutto come un frullatore. I primi tempi non era stato facile conviverci ma Vincenzo era un tipo calmo e paziente e col passare del tempo si era abituato, ed ora gli voleva anche bene, tanto da trattarlo come un figlio. Non perdeva occasione per raccontargli i propri sogni e i propri pensieri, e quante volte aveva raccontato della truffa ai danni del banchiere svizzero (Nicola si piegava tutto a sinistra approvando) e della casetta col giardino in cui si sarebbe ritirato, finita di scontare la pena. Nicola, era sempre piegato a sinistra come a dire: "È giusto, è ora di smettere con questa vita, sono d’accordo".

I giorni trascorrevano tranquilli, Vincenzo andava al lavoro, Nicola era lì ad aspettarlo vicino alla finestra; mangiavano verso mezzogiorno.

Venne, però, un giorno che Vincenzo a mezzogiorno, non tornò. Nicola, preoccupato, aveva iniziato a camminare su e giù per la cella, attento al minimo di chiave che preannunciasse l’arrivo dell’amico. Finalmente verso le 5 del pomeriggio Vincenzo tornò pallido, con il fiatone e due occhi spaventati. Sedette sulla branda, senza dire una parola. Nicola andava avanti e indietro e siccome era felice frullava come non mai. Era impaziente di sapere cosa era successo e così Vincenzo cominciò a raccontare cosa era successo. Il suo racconto era dovuto a un malore; mentre saliva le scale il suo cuore aveva iniziato a fare i capricci, prima velocissimo, poi all’improvviso quasi fermo, un dolore lancinante l’aveva colto al petto e si era accasciato a terra (Nicola cominciò a piegare a destra). L’avevano accompagnato in ospedale con procedura d’urgenza e i medici gli avevano riscontrato una grave malformazione cardiaca (Nicola piegò ancora più a destra), la situazione era veramente grave tanto che gli stessi sanitari avevano proposto un’immediata sospensione della pena (Nicola si capovolse). Nicola nei giorni successivi era silenzioso e ormai frullava solo quando trasmettevano le partite del Milan, di cui come Vincenzo, era un grande tifoso. Venne anche la vecchia Erminia che chissà come aveva saputo del malore; gli aveva portato un completo scuro da mettere perché ormai era certo che gli avrebbero sospeso la pena. Erminia si era informata dal magistrato e aveva saputo per certo della scarcerazione, anche se la data non era ancora sicura. Lei l’avrebbe aspettato in un alberghetto lì vicino, per poi accompagnarlo a Milano. Il pensiero di lasciare l’amico Nicola lo tormentava, sicuramente non ci sarebbe stato più nessuno in grado di capirlo come aveva fatto lui.

In un attimo decise: uscito, Nicola l’avrebbe portato con lui, nella casetta col giardino.

Si sarebbe trovato bene.

Il fatidico giorno arrivò, il Direttore in persona comunicò a Vincenzo di prepararsi che di lì a poco un agente l’avrebbe accompagnato fuori; avevano avvertito la cugina Erminia. Alle 5 in punto Vincenzo era pronto, consegnate le poche cose dell’amministrazione (gavetta, posate, lenzuola ecc.), salutati i vecchi amici, con una borsa da viaggio messa a tracolla, guardò ancora una volta la piccola cella dove aveva trascorso gli ultimi due anni, e poi si incamminò dietro all’appuntato. La strada che portava all’uscita sembrava non finire mai, Vincenzo non ricordava di aver varcato tanti cancelli. Ad ogni cancello il cuore batteva forte, finalmente l’ultima porticina verde che dava direttamente su un cortile circondato da pioppi secolari e poi la strada principale che portava in città. Un ultimo saluto all’appuntato e libero il sospiro di Vincenzo si contrappose al frullare di Nicola; guardandolo Vincenzo s’intenerì ma non ebbe tempo di formulare un pensiero. Erminia si stava avvicinando a grandi passi, era ormai vicina a lui, quando la vide cambiare espressione, con una rivista in mano, gli giungeva al fianco colpendolo sulla spalla con forza e dicendogli: "Avevi un grosso ragno sulla giacca". Vincenzo guardò Nicola, lo chiamò e Nicola ebbe un ultimo frullio, poi, insieme al cuore malandato di Vincenzo, si fermò... Ancora insieme.

È un lusso

 

No, no, mica posso andare avanti così: "pere" e galera, galera e "pere"

 

Ore 14,30 di un giorno qualsiasi. Sei seduto sulla branda superiore di un letto a castello, con le gambe incrociate sotto al cuscino sul quale c’è appoggiato il "quadernone" che usi per scrivere e con la schiena appoggiata al muro.

Pensi al precipitare che è stata la tua vita dai 18 anni fino ad oggi (40). Questi pensieri si formano in un’anonima cella di via delle Novate, dove sei rinchiuso da parecchi mesi. Ora che sono passati ti pare di aver fatto solo qualche giorno ma a pensarci bene: Cazzo, che sofferenza!!!

"Tossico" da una vita, hai disceso la china fino a toccare il fondo. Sembra ieri quando, quasi per gioco, per poter dire un domani: "Ho provato", per la prima volta facendoti hai voluto usare l’eroina (la "roba", in gergo).

La solita frase che sempre si usa per giustificare l’azione che si sta compiendo: "Tanto smetto quando voglio, una volta e basta". All’inizio solo al sabato sera, poi qualche altra volta infrasettimanale, quindi sempre più spesso, fino a diventare dipendente. I soldi che al martedì sono finiti e che dovevano durarti fino al sabato, i primi furtarelli, la perdita del lavoro, i primi traffici di bustine per avere le tue 2-3 dosi quotidiane, la consapevolezza di stare percorrendo una strada senza via d’uscita ma, al tempo stesso, il menefreghismo più assoluto. I freni morali che si allentano sempre più.

I primi arresti, per i motivi più vari, le prime brevi carcerazioni e conseguenti scarcerazioni. La cerchia di amici "tossici" che si allarga sempre più. Parallelamente la perdita dei valori più cari: amici, famiglia, affetti, beni materiali. Altri arresti con detenzioni più lunghe. Altro discendere la china. I tuoi primi amici che cominciano a scomparire. Quegli amici che, qualche anno prima come te, hanno iniziato quasi per gioco e che ora ci sono rimasti. Nella vita di tutti i giorni sarebbe un dolore ma la "roba" ti inaridisce il cuore.

Pensi solo: "Cazzo, pure lui". Nulla di più, mancanza totale di sentimenti. Le amiche che, come te, hanno voluto provare e che ora battono il marciapiede per avere i soldi necessari alla dose, all’inizio lo fanno di nascosto: la vergogna è ancora un sentimento. Con l’andare del tempo diventa un lusso e imparano a non averne più.

I rapporti sessuali, con loro, sono senza limiti, la "roba" toglie i freni inibitori. La fedeltà non esiste.

L’amore dura finché dura la "roba". Sono lussi anche questi, non potete permetterveli. Ennesimo arresto. Ennesima carcerazione e, per un certo periodo, una parvenza di normalità.

Un flash back improvviso e una domanda che sorge spontanea: "Ma cosa Cazzo ho combinato fino ad ora? No, no, mica posso andare avanti così: "pere" e galera, galera e "pere". Non mi faccio più".

Segue un periodo più o meno lungo di auto-convincimento e una sorta di euforia. Ti sembra quasi che quello che hai passato sia solo un sogno o una realtà non tua. Sei ultraconvinto che, cascasse il mondo, non ti farai più. Quando finalmente esci, l’impatto violento con il mondo esterno...

Gli unici amici che hai sono tossici o ex carcerati, il lavoro fatichi a trovarlo (anche perché ti hanno ritirato la patente anni prima), la gente per bene ormai ti conosce e, salvo qualche rara eccezione, non ti "si fila". Cerchi comunque di resistere ma, dentro di te, sai già che sei destinato a soccombere. Anche perché sei drammaticamente solo. In lontananza senti "il richiamo della foresta" farsi sempre più forte e inarrestabile.

È passata qualche settimana e ci sei ricascato. La tua attuale vita è un continuo peregrinare tra il trovare i soldi, la "roba" e il "farti".

Spesso e volentieri sei con qualche altra "disgraziata" come te, con la quale condividi una vita ai limiti dell’impossibile. È per voi come riempire un vuoto affettivo e sessuale, lo stare insieme e in più, per lei, una forma di protezione in un mondo schifoso (quello "tossico").

Dopo qualche mese di quella vita randagia capisci che non ce la fai più. Di solito quando arrivi a questo punto sei "cotto" e combini qualche "cazzata" e ti arrestano, oppure cerchi una pseudosoluzione che è la comunità di recupero. Opti per la comunità e, se riesci a non farti legare nel frattempo e dopo un "sacco" di colloqui con il Ser.T. (servizio tossicodipendenze), finalmente ci entri.

Forse perché non sei più un ragazzino, forse perché hai una certa mentalità, forse perché non sopporti le regole, fatto sta che dopo un mese o due abbandoni.

Torni alla vita "tossica". Dentro di te ti rendi conto che è sempre più difficile starne lontano. Dormi dove capita, mangi quando ti ricordi, la doccia la fai quando ci riesci. La china non la discendi più, hai toccato il fondo ormai da un pezzo.

Ad inizio "carriera" è stato un crescendo di furtarelli e di rapinette, poi sei passato ai furti e alle rapine vere e proprie, ora è un regredire continuo: basta tirare su 50 o 100.000 lire al giorno, non ti frega niente di null’altro. Scippi, furtarelli, rapinette, passaggi di "bustine", basta "farsi".

È incredibile che, così facendo, prima o poi (più prima che poi) torni "dentro" (solo pochi mesi per fortuna).

Da dietro le sbarre e dopo aver smaltito la "scimmia" (l’astinenza), ricominci a pensare di uscirne.

Riprendi i contatti con il Ser.T,. ti iscrivi a scuola, lavori e, quando esci, vai dritto "sparato" in comunità, convinto che questa volta ce la farai. Tutte cazzate.

A parte il seguire le "regole" (10 sigarette al giorno, vari "gruppi" alla settimana, pulizie di brutto tutti i giorni, colloqui con gli operatori ecc.), ti rendi conto che con qualche eccezione la comunità è solo un luogo in cui leccarsi le ferite per un certo periodo di tempo, anche quando finisci il "programma" (se lo finisci), ti trovi una casa, un lavoro e ti sistemi, non preoccuparti: è solo questione di tempo.

Sono passati tre anni durante i quali ti sei "fatto" solo sporadicamente. Hai anche cambiato città, ti sei rifatto un giro di amicizie, hai ripreso la patente, hai un lavoro che ti piace e dopo un po’ di gavetta pure ben pagato. Un sabato sera, per caso, conosci un "tossico". Tempo meno di un anno e sei da capo: hai iniziato a "rifarti". Prima una volta ogni tanto, poi una volta alla settimana, poi due, poi tre e quindi tutto un continuo. In breve tempo perdi tutto quello per cui hai così duramente combattuto: il lavoro per primo, le amicizie "buone", (al contrario cominci a rifarti quelle "tossiche"), la patente, la casa.

Insomma: tutto!!!

Dopo tanti anni ti accorgi anche che:

- "Inscimmiarti" è questione di poche "pere".

- Perdere quei valori morali e materiali che, con enorme fatica e sacrifici, ti eri costruito è questione di pochissimo tempo.

- L’esperienza maturata in tanti anni e che credevi dimenticata, riaffiora, ed è così che, questa volta, non discendi la china: precipiti in un baratro, in caduta libera. Senza paracadute.

- Il futuro che, nonostante i "tempi duri", prima intravedevi, ora non lo intravedi più.

Spesso accompagni qualche "amico" o "amica" al Ser..T. perché deve bere il metadone... Ti è stato proposto, ma sei contrario, preferisci non "incasinarti" con un’altra porcheria (che, tra l’altro, dà una dipendenza spaventosa).

Con il tempo ti sei creato una cerchia di "amici ultratossici" come te, con i quali vai particolarmente d’accordo.

Il sapere che c’è qualcuno sul quale puoi, relativamente, contare ti aiuta a sopportare la vita che conduci. Tra gli "ultratossici" ci sono anche le "ultratossiche", i rapporti con loro sono ottimi. Strano, per gente all’ultima spiaggia, ma vero. È il bisogno reciproco di compagnia e di calore che si fa sentire. Il "tossico" è una persona sola anche quando è circondato di gente (spesso è circondato solo dalla Polizia). Comunque ti accorgi sempre più di non "starci dentro", quel tipo di vita ti sta, piano piano, massacrando: sei dimagrito di 10 Kg, barba sempre lunga, trasandato, hai perso denti e capelli, dormi dove capita, ti lavi e ti cambi quando ci riesci.

Anche il carattere ti cambia: sei estremamente litigioso, molte cose che prima ti andavano bene, adesso non le sopporti più, sei taciturno e sempre assente (psicologicamente).

Ti hanno anche ricoverato per una broncopolmonite e una pleurite (tutt’e due assieme), una persona normale sarebbe rimasta ricoverata almeno 15 giorni, tu no: dopo 4 giorni hai firmato la "liberatoria" e te ne sei andato. Hai visto un "mare" di tuoi "amici" ammalarsi e poi morire di A.I.D.S, e tu? Tu ti sei sempre rifiutato di fare gli esami per paura di una verità che potrebbe essere uno SHOCK e che potrebbe essere veramente dura da sopportare. Con quel barlume di coscienza che ti è rimasta, cerchi di usare delle precauzioni quando vuoi o devi fare sesso. Sei in carcere un’altra volta, tutto da ricominciare.

Sei apatico, menefreghista, debole psicofisicamente. Questa volta, rifiuti i colloqui con tutti: educatori, assistenti sociali, psicologi ecc.

Ti convinci, o meglio autoconvinci, che è solo una perdita di tempo e forse non hai tutti i torti.

Tra le poche cose che ti piace fare: leggere, scrivere, correre e fare ginnastica. Hai anche cominciato a lavorare che, tra le altre cose come lo stare in giro per la sezione, ti consente di tirare avanti senza dipendere da nessuno e non è poco!

È paradossale: per avere quella tranquillità psicofisica che non sei mai riuscito ad avere fuori, devi stare in carcere. Intanto passa un anno, un anno e mezzo e ti ritrovi seduto su una branda a ripensare a quello che hai passato. Continuando a non vedere un futuro...

 

 

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