Terzo classificato

 

Il polpo

di Giuseppe Cafora (III premio)

 

Arcipelago Toscano, a trenta miglia marine da Livorno, nel bel mezzo tra Pianosa e Capraia, si erge dal mare uno scoglio di 1.800 metri di lunghezza per un diametro di 4.800 metri: Gorgona Isola. La più piccola delle isole abitate dell’arcipelago. Ci capitai per caso, nel mio eterno girovagare tra le patrie galere. Sissignori, Gorgona Isola è un carcere, ma, per un detenuto, è un paradiso con pochi cancelli e tanto verde, tanto blu e tanto profumo di vita. L’occhio corre libero dentro gli spazi, si riempie di cose vere e vive, le elabora e le invia ai sensi, affamati dalla lunga permanenza tra le mura grigie e l’odore di stantio delle carceri cittadine. Così che, scariche di adrenalina si liberano e ti percorrono interamente, procurandoti uno stato di ebbrezza, la più rara delle ebbrezze: l’ebbrezza detenuta! Si rimane come in festa, tra l’odore di benefico salmastro di un mare primitivo, con l’occhio profondo più di venti metri e il verde della natura selvaggia costellata di terrapieni antichi. Arrivai così, con il cuore in festa come in vacanza. Dopo i primi mesi di ambientamento, riuscii a farmi destinare, con mansioni di motorista, alla Centrale Elettrica. Una piccolissima sezione di carcere distaccata, con dodici posti letto, un refettorio con una vetrata ad arco che guardava direttamente sul mare, una cucina, le cui mura portanti lambivano gli scogli vivi, ed un gazebo, ai piedi di un terrapieno adibito ad orto, costruito sugli scogli, previa gettatina di cemento. Questa era la sezione di Cala Martina, il paradiso nel paradiso. Una scaletta scolpita nella roccia portava direttamente a contatto del mare. Non c’era spiaggia in quel fantastico paesaggio; solo scogli e mare, un mare dagli occhi profondi che chiacchierava bonariamente nei giorni di calma, ma che sapeva urlare con un fragore assordante. Nei momenti d’ira, era capace di arrampicarsi fino alla sezione e bussare con insistenza ai vetri. Sembrava dirci: - Guardate quant’è grande la mia forza! - e mentre riprendeva fiato per gonfiare un’altra onda, ritirava le sue acque fino a mettere a nudo metri di fondale e scogli che, solitamente, stavano sotto metri d’acqua, per poi tornare a gridare la sua collera fatta di montagne d’acqua… era terribilmente bello.

Mi ambientai subito. Avevo avuto modo, in precedenza, di conoscere le persone detenute che stavano lì prima di me; c’era armonia tra loro ed io entrai a farne parte. Più il tempo passava e più il mare mi entrava dentro, ne ero perdutamente innamorato. Lo osservavo ogni momento, cercavo di capirne gli umori, le correnti che lo muovevano. Non era mai di colore uniforme. Il più delle volte si presentava a strati, come pennellato: acqua marina, verde smeraldo e blu cobalto che si perdeva, sfumandosi, all’orizzonte. Altre volte era levigato e lucido come vetro, con chiazze increspate dal gioco della brezza, oppure con fitte crespe bianche che si rincorrevano come un gregge di pecore, e, ancora, fatto a dune d’acqua liscia, come un deserto, che si gonfiavano al largo, e il mio pensiero correva a Cala Maestra, opposta in linea d’aria a Cala Martina, dove le onde s’infrangevano maestose, spinte da un vento di Libeccio teso e forte. Era vivo e umorale come una persona, incostante come la vita; mi assomigliava. Cominciai ad immergermi per conoscerlo intimamente, dapprima con timore, poi, con l’andar del tempo, con rispetto e ammirazione. Imparai a conoscere ogni scoglio, ogni sasso, ogni cespuglietto d’alghe, le piccole aiuole di posidonie che, poco più al largo, divenivano una prateria sterminata di un verde scuro, che diventava nero con l’inabissarsi del fondale. Di preferenza, però, stazionavo intorno alla costa, dove il fondale non superava mai i dieci metri, anche perché avevamo sì il permesso di fare il bagno, a patto di rimanere visibili all’agente che ci osservava da una garitta posta più in alto rispetto alla sezione e che, tramite un walkie talkie, si teneva in contatto costante con la pilotina che perlustrava la zona di mare interessata.

L’allontanarsi da detta zona, significava mettere in allarme tutto l’apparato di sorveglianza, con conseguenze poco piacevoli, per cui, a parte qualche piccola defezione, rimanevo nei limiti. Avevamo il permesso di indossare maschera e boccaglio, ma non di usare le pinne; evidentemente per scoraggiare i malintenzionati a tentare un’evasione a nuoto, come, si raccontava, fosse successo negli anni precedenti e, purtroppo, senza successo per l’intraprendente detenuto.

Un giorno, indossati maschera e boccaglio e pieno d’infinita curiosità per quel mare sempre da scoprire, mi tuffai. L’acqua era calma e tiepida. Guardavo, con ammirazione sempre nuova, la fauna ittica così diversa e colorata, pareva un immenso acquario, dove tutto era predisposto con armonia. Galleggiavo non solo con il corpo, ma anche con lo spirito… erano momenti di libertà assoluta in comunione con il mare che, intimamente, mi procurava uno stato d’estasi. Così percorsi quei cinquecento metri dove avevo il permesso di balneazione. Ritornai indietro, perlustrando, con lo stesso interesse, ogni sasso, ogni scoglio, ogni anfratto o tana. Il fondale era limpido e cristallino. Aggirai lo spuntone di roccia che immetteva nell’ansa di Cala Martina.

Qualche bracciata dopo, mi ritrovai a guardare lo scoglio, ai piedi del quale, all’andata, avevo raccolto una bellissima conchiglia di madreperla - un’orecchia di mare - che presentava una fila di piccoli fori sul lato esterno della mezza luna, che andavano in crescendo, dalla base alla sommità della conchiglia stessa. Pareva un orecchio dei giovani d’oggi al quale erano stati tolti tutti gli orecchini. Magicamente, su quello scoglio, in pochi minuti, era cresciuta una pianta marina. Incuriosito, galleggiai sopra di essa, da un’altezza di cinque metri circa. Era una comune alga che abitava quelle scogliere sommerse, però, quella pianta, non cresceva così da un momento all’altro, né tanto meno aveva la caratteristica di girare a suo piacimento. La vedevo fluttuare armoniosamente come tutte le alghe e le posidonie che stavano sul fondale circostante. Mi immersi per guardarla più da vicino. Metro dopo metro, mentre mi avvicinavo, la pianta era sempre più simile ad un cespuglietto d’alghe, ma con colori leggermente più brillanti, rispetto alle altre, qualcosa di percettibile solo ad occhi ben allenati come i miei. Continuai a scendere con la crescente curiosità di svelare quel mistero. Arrivai a poche decine di centimetri dal fondo. D’un tratto, la pianta, si trasformò in una grossa stella bianca. Ero sconcertato ed affascinato allo stesso tempo; in una frazione di secondo, davanti ai miei occhi, era avvenuta un’altra magia. Ebbi appena il tempo di riprendermi dalla sorpresa, che la stella scattò di lato, scaricando una nuvola di fumo nero, come un vecchio diesel ingolfato, che, comunque, non riuscì a nascondere alla mia vista l’animale che fuggiva impaurito, stantuffando con gli otto tentacoli e, infine, allungandosi come un siluro, si diresse in direzione della vasta prateria di posidonie e lì si mimetizzò, scomparendo nuovamente alla mia vista. Quel mago trasformista era un gran bel polpo e, quella, fu la prima volta che vidi un polpo all’opera, nel suo ambiente naturale.

 

 

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