Indultino, storia di un equivoco

 

Indultino, storia di un equivoco

di Orazio Sorrentini (Direttore della Casa di Reclusione di Milano-Opera)

 

La legge n. 207 del 2003 che, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare, ha previsto la concessione del cosiddetto "indultino" ai detenuti o a coloro in attesa di esecuzione della pena venne approvata circa diciotto mesi orsono.

Si può perciò provare a trarre un primo bilancio di essa frigido pacatoque animo, visto che è stata preceduta da così numerose polemiche e che la sua promulgazione sembrava imminente già nel 2000, anno dell’ultimo Giubileo. Tutti ricorderanno, al riguardo, le dichiarazioni di Giovanni Paolo II in favore di un provvedimento di clemenza pronunciate nel corso della sua solenne visita nel palazzo di Montecitorio il 14 novembre 2002.

Le difficoltà ad approvare una normativa che disponesse un autentico indulto sono emerse, da un punto di vista pratico, in ragione della sempre più avvertita ed incalzante domanda di sicurezza da parte della pubblica opinione, che risulta in prevalenza orientata in senso contrario ad un provvedimento di tal genere.

Indipendentemente da ciò, e tralasciando le varie questioni inerenti ai meccanismi che possono concorrere ad influenzare la stessa opinione pubblica, del resto di per sé mutevole nel tempo, ci sembra il caso anzitutto di precisare i termini del problema da un punto di vista teorico.

L’indulto, unitamente all’amnistia ed alla grazia, è un istituto tipico della cosiddetta "clemenza sovrana", storicamente espressione di una concezione teocratica del Monarca, al quale spetta, insieme a quello di punire, il potere di perdonare o dispensare dalla pena il reo a suo piacimento. D’altra parte è la stessa radice della parola "indulto" che vale a spiegare quanto detto: essa deriva infatti da indulgere (ne è anche il participio passato) cioè perdonare, essere clementi od anche concedere in modo benigno, elargire. Anticamente l’indulto indicava, per l’appunto, una concessione, un permesso. Il Codice Teodosiano lo cita come un’esenzione benevolmente accordata dal potere imperiale. Il termine successivamente passò dal diritto romano in quello della Chiesa romana con il simile significato generale di concessione praeter vel contra ius (cioè oltre o addirittura contro diritto!) fatta di solito proprio dalla stessa Santa Sede a persona fisica o giuridica.

Uno degli argomenti maggiormente citati contro di esso è che l’indulto violerebbe il principio di certezza (rectius inderogabilità) della pena. Questo principio, proprio dell’ideologia penale liberale, fu propugnato dagli illuministi ed il suo scopo originario fu appunto quello di evitare che il potere politico potesse discrezionalmente mutare le punizioni inflitte ai rei da parte degli organi giudiziari. Esso si inquadrò nel più generale programma di razionalizzazione ed unificazione del panorama normativo, che all’epoca dell’Ancien Régime risultava estremamente variegato e frammentato. In pratica veniva creata una garanzia contro possibili privilegi atti a minare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini solennemente affermatosi con la vittoria dei rivoluzionari francesi. Una volta inflitta dall’autorità giurisdizionale a ciò preposta la pena va quindi inderogabilmente applicata nella sua interezza nei confronti del reo. Indubbiamente questo principio rappresentò una notevole conquista in termini di civiltà giuridica poiché esclude privilegi in favore di chicchessia durante la fase esecutiva (cioè successiva alla condanna) della pena. Esso peraltro soffre ancora oggi di alcune eccezioni, per esempio il potere di grazia previsto dalla stessa Costituzione (non ci soffermiamo qui sui problemi attualissimi ad esso inerenti, limitandoci solo a notare che -fortunatamente!- nel caso dell’indultino il legislatore ha espressamente previsto che l’istanza volta ad ottenerne la concessione va proposta dal diretto interessato o dal suo difensore).

Occorre anche dire che il principio suddetto deriva in modo diretto dalla teoria retributiva della pena. Secondo questa teoria la pena è il male inflitto al reo come corrispettivo del male da lui commesso e pertanto va sempre scontata per intero data l’esigenza etica profonda che ne costituisce il fondamento.

Successivamente, il lento affermarsi nel secolo scorso dell’ideologia del trattamento, che sostituisce al concetto di pena "certa" quello di pena "utile", ha revocato in dubbio il principio di cui supra. Secondo tale ideologia la pena, se inutile, non va applicata, benché sussistano in concreto tutti i requisiti che la legge prevede in ordine alla sua concreta inflizione. Il legislatore stesso ha tenuto conto di ciò, soprattutto in tema di pene detentive brevi, ritenute non solo inutili, ma dannose, e prevedendo perciò una serie di strumenti normativi atti ad evitarne l’applicazione (come, ad esempio, la legge del 1981 sulle sanzioni sostitutive della pena).

Peraltro, alla crisi della pena detentiva si è accompagnata quella, come era ovvio che fosse, delle stesse misure clemenziali che, in un sistema penale rigido ne rappresentavano in pratica l’unico correttivo. Ma occorre qui sottolineare anche che è proprio la finalità rieducativa della pena, finalità costituente il substrato dell’ideologia trattamentale e consacrata nella nostra Carta Costituzionale, che è in netto contrasto con l’indulto. In effetti quest’ultimo, per il suo carattere generale ed automatico collide in modo netto con la finalità suddetta, non essendo basato su diagnosi e prognosi criminologiche individualizzate. La liberazione in seguito ad un indulto non presuppone certo che il programma di trattamento risocializzativo del liberando sia stato portato a termine, mentre la giustificazione dei vulnera che l’ordinamento giuridico reca al principio della pena "certa" si fonda proprio sulle differenze personali sussistenti tra ciascun soggetto condannato.

Del resto, come ha rilevato la migliore dottrina penalistica, l’indulto contrasta praticamente con ognuno degli scopi che si attribuiscono alla sanzione penale. La finalità retributiva della pena che, per quanto negletta o ritenuta antidiluviana, è di fatto presente in maniera continua e costante nella coscienza della nettissima maggioranza dei consociati, viene infatti ad essere frustrata poiché tale provvedimento altera la proporzionalità della sanzione comminata con la gravità del reato commesso, senza contare il principio di inderogabilità di cui supra. Anche la finalità di prevenzione generale dei reati a cui la pena assolve non si concilia con l’indulto perché quest’ultimo ne svaluta la funzione deterrente e dissuasiva (soprattutto in caso di regolare periodicità di concessione dello stesso, tale da poter essere preventivato nel calcolo dei rischi connessi al reato da parte di chi delinque). Non parliamo poi del principio di eguaglianza: la data di applicazione del beneficio può comportare clamorose iniquità.

La concessione dell’indulto ora avviene per effetto della volontà di una qualificata maggioranza parlamentare, non più del governo, in seguito alla recente riforma della materia, riforma resasi necessaria in seguito all’eccesso di provvedimenti clemenziali avvenuto nel secondo dopoguerra.

Consideriamo ora la questione da un punto di vista pratico e vediamo in sostanza che cosa dispone la normativa di cui discutiamo. Preso atto dell’impossibilità di raggiungere la maggioranza parlamentare prevista dalla Costituzione riguardo alle leggi che concedono l’indulto o l’amnistia, è stato in suo luogo emanato un provvedimento ordinario che qualcuno ha ritenuto essere elusivo del disposto costituzionale in materia di indulto, data l’automaticità della sua concessione. I fautori dell’indultino obiettano che il principio di inderogabilità di applicazione della pena è fatto salvo in quanto si ha una semplice sospensione condizionata dell’esecuzione della sanzione penale. Peraltro l’esclusione dal novero dei beneficiati degli autori di reati collegati al traffico di sostanze stupefacenti (insieme ad altre tipologie di reato di particolare gravità o destanti notevole allarme sociale) già ne limitava alquanto l’area di applicazione (più della metà dei detenuti in Italia sono in carcere perché ritenuti autori di illeciti penali relativi a disposizioni in materia di droghe).

Ma il punctum dolens del problema è proprio questo: l’obiettivo che si intendeva raggiungere era in effetti quello, assai prosaico, di "svuotare" le carceri? Se sì, benché questa realtà ripugni alla coscienza sociale e sia invisa alla migliore dottrina giuridica (la si può edulcorare ponendo in rilievo piuttosto l’esigenza di migliorare le condizioni di vita penitenziaria per poter così meglio operare in senso rieducativo), esso può dirsi mancato. In una regione grande come la Lombardia, infatti, sono state scarcerate dopo tredici mesi dall’approvazione della legge circa 340 persone, a fronte di un totale attuale di detenuti che è di circa 8.300 unità. Se invece l’obiettivo perseguito non era quello di ridurre considerevolmente il numero dei reclusi, allora il provvedimento può risultare ultroneo, data l’attuale congerie di istituti previsti dalla legge che consentono di ridurre l’applicazione della pena della reclusione. In effetti l’evoluzione del pensiero penalistico e psichiatrico si indirizza sempre più verso una contrazione dell’utilizzo di misure intra-murarie nei confronti di chi commette reati, siano essi sani di mente oppure no. Basti al riguardo ricordare la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha ulteriormente allargato le maglie dell’art. 219 del codice penale, consentendo al giudice di non sottoporre ad alcun internamento, nemmeno per un brevissimo periodo, i rei di delitti particolarmente gravi prosciolti per totale infermità mentale qualora egli li ritenga non socialmente pericolosi.

Questa evoluzione di rado si concilia però con i sentimenti dell’opinione pubblica, in particolar modo in occasione di reati di particolare ripugnanza e di allarme sociale e ciò, unitamente al diffondersi di un crescente senso d’insicurezza collettivo, spiega i tentennamenti del legislatore, che ha effettuato, come spesso accade, una scelta di compromesso, optando per l’esclusione di talune categorie di delitti dall’applicazione del beneficio in discorso.

Inoltre la legge prevede che il beneficio concesso venga revocato in caso di inosservanza ingiustificata di determinati obblighi posti a carico del soggetto a cui è destinato. Questi obblighi hanno tutti carattere "esterno". Probabilmente molte polemiche si sarebbero evitate se il legislatore avesse previsto tra i requisiti di ammissione all’indultino la regolarità, anche solo formale, della condotta tenuta dal recluso durante la detenzione, similmente a quanto la legge dispone in casi simili. Ciò avrebbe del resto non solo conferito all’istituto in discorso natura premiale, spogliandolo dei più vistosi profili di automaticità e rendendolo perciò ben più digeribile dalla communis opinio, ma lo avrebbe altresì reso maggiormente compatibile con l’intero sistema in cui esso è stato inserito. L’indultino consiste infatti in un abbuono di pena, seppur condizionato, ed arieggia perciò l’istituto della liberazione anticipata, che consente al recluso di "guadagnare" 45 giorni ogni sei mesi di condanna qualora egli dia prova di partecipare all’opera di rieducazione in carcere.

In pratica il beneficio in esame può essere concesso anche ad un detenuto che non si comporti correttamente all’interno della struttura carceraria, salvo che gli sia stato applicato il regime di sorveglianza particolare, provvedimento assai raro e previsto in casi davvero limite.

Occorre aggiungere infine che la legge n. 207/2003 presta il fianco a serie critiche circa la sua legittimità costituzionale poiché essa non si applica ai condannati ammessi all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare, agli arresti domiciliari esecutivi od al regime di semilibertà (anche se quest’ultimo costituisce per la dottrina giuridica dominante non un’autentica misura alternativa alla detenzione ma una mera forma di esecuzione penitenziaria) in quanto essi non sono in stato di detenzione. I soggetti ammessi a quei benefici da parte della magistratura di sorveglianza, evidentemente ritenuti più meritevoli degli altri reclusi, vengono così ad essere incongruamente esclusi dal provvedimento di clemenza in questione.

 

 

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