Articolo di Carlo Brunetti

 

Sospensione cautelativa delle misure alternative

e applicazione dell’articolo 51 O.P.

di Carlo Brunetti

 

Che la reclusione carceraria non sia l’unica modalità di espiazione della pena è una realtà che si evince già dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Tale legge, chiaramente ispirata all’art. 27 comma 3 della Costituzione e imperniata, pertanto, sull’esigenza di rieducazione del reo, disciplina istituti definiti alternativi alla detenzione.

Le norme sull’ordinamento penitenziario in generale e quelle che riguardano le misure alternative in particolare sono state oggetto di una serie di provvedimenti legislativi e di pronunce di illegittimità costituzionale che hanno modificato la configurazione e la natura stessa degli istituti disciplinati.

Questi ripetuti e contraddittori interventi, ispirati ad eterogenee e spesso contingenti strategie (come una più efficace azione di lotta alla criminalità organizzata e/o la deflazione della popolazione carceraria), hanno influito non soltanto su i presupposti, i caratteri, i limiti e le modalità delle singole misure, ma più in generale sull’assetto complessivo delle medesime.

Infatti, per un verso, sono state progressivamente introdotte esclusioni e restrizioni alla concessione delle misure alternative per gli appartenenti alla criminalità organizzata e per i condannati per delitti terroristici od eversivi; per altro verso, sono state concesse agevolazioni ai detenuti che collaborano con la giustizia e che sono destinatari di uno speciale programma di protezione (1).

Inoltre, su un piano più generale, si è progressivamente attenuata la rigidità dei presupposti applicativi delle varie misure.

Tale sviluppo normativo ha portato gran parte della dottrina a parlare di una vera e propria "binarietà" delle norme sull’ordinamento penitenziario, la quale ha reso, e tuttora rende, problematico il coordinamento fra le varie disposizioni in materia. Oltre a queste difficoltà di coordinamento, le frequenti oscillazioni legislative fra l’ampliamento della portata applicativa delle misure alternative e le periodiche controtendenze, con l’introduzione di divieti e limitazioni, hanno determinato una non certo agevole definizione della loro reale natura ed effettiva funzione.

In un sistema come il nostro, caratterizzato dal primato della pena detentiva, l’introduzione di misure alternative alla detenzione non può che rappresentare la messa in atto di una "strategia differenziata" nella repressione dei reati, basata sulla realizzazione di un trattamento individualizzato, il quale prevede l’osservazione scientifica del condannato, tiene conto delle sue condizioni specifiche e dei particolari bisogni della sua personalità, ed ha come scopo primario il recupero del reo e il suo reinserimento nella vita sociale. Alla luce di ciò non vi è dubbio che gli istituti alternativi alla detenzione siano la palese dimostrazione dell’avvenuta "positivizzazione del primato della prevenzione speciale sulle altre funzioni della pena" (2).

Comunque, data la composita tipologia delle misure alternative, la difficoltà maggiore consiste nel trovare un comune denominatore per istituti fra loro molto diversi, in modo che la definizione stessa di "misura alternativa" sia correttamente riferibile ad ognuno di essi.

A tal riguardo la dottrina non ha mancato di trovare innumerevoli ed originali soluzioni interpretative; si è giustificata, infatti, l’inclusione nella definizione di misura alternativa di alcuni istituti e l’esclusione di altri, talora con riferimento al momento di attuazione della misura (durante la fase cognitiva o durante quella esecutiva); talaltra considerando se, durante la loro attuazione, questi istituti comportino comunque un contatto, magari attenuato, con il carcere oppure ne prescindano totalmente; altre volte, si è individuata l’alternatività in rapporto al contenuto delle misure stesse (a seconda che queste ultime prevedano o meno un sostitutivo contenutisticamente determinato al carcere).

Nonostante la pluralità dei criteri distintivi proponibili, è preferibile attenersi al principium individuationis basato sul dato normativo, anche se siffatta impostazione non può prescindere da correttivi derivanti da valutazioni di ordine sistematico (3).

Premesso quanto sopra, tra le tante problematiche relative alle vicende delle misure alternative interessante può risultare soffermarsi sulla previsione di cui all’art. 51 ter O.P. e sulle conseguenze che tale previsione ha per le Direzioni degli istituti penitenziari nel caso in cui, decorso il termine temporale previsto per la decisione del Tribunale di sorveglianza, non sia stata presa alcuna decisione in merito alla revoca della misura alternativa in precedenza sospesa.

Ai sensi dell’art. 51 ter O.P., infatti, se l’affidato in prova al servizio sociale o l’ammesso al regime di semilibertà o di detenzione domiciliare o di detenzione domiciliare speciale pone in essere comportamenti tali da determinare la revoca della misura, il magistrato di sorveglianza nella cui giurisdizione essa è in corso, qualora ritenga che per la condotta tenuta dal condannato il Tribunale di sorveglianza potrà revocare la misura e che ricorra l’esigenza di provvedere in via d’urgenza, ne dispone con decreto motivato la provvisoria sospensione, ordinando l’accompagnamento del trasgressore in istituto. Il magistrato di sorveglianza trasmette, inoltre, immediatamente gli atti al Tribunale di sorveglianza per la decisione definitiva.

Il citato articolo è stato aggiunto alla legge sull’ordinamento penitenziario dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 ed è stato successivamente modificato dalla legge 8 marzo 2001 n. 40, al fine di consentire un tempestivo intervento nell’ipotesi in cui colui il quale esegue una misura alternativa tenga un comportamento incompatibile con la prosecuzione della misura.

Il legislatore ha previsto, però, che il provvedimento di sospensione del magistrato di sorveglianza cessi di avere efficacia qualora la decisione del Tribunale di sorveglianza non intervenga entro trenta giorni dalla ricezione degli atti (4). Tale previsione mira ad evitare che la sospensione cautelare da parte di un organo monocratico di una misura per la cui concessione o revoca è competente un organo collegiale si possa protrarre ingiustificatamente.

Rilevante risulta allora, alla luce di quanto premesso, definire se, nel caso di decorrenza del termine di trenta giorni - previsto dal citato art. 51 ter O.P. -, senza che sia intervenuta la decisione del Tribunale di Sorveglianza in ordine alla revoca della misura alternativa, si determini l’obbligo per il direttore di far riassumere autonomamente all’interessato la posizione giuridica goduta prima della sospensione stessa, oppure debba comunque intervenire un formale provvedimento di scarcerazione.

Se il tenore letterale della norma in argomento non lascia dubbi sul fatto che la mancata decisione del Tribunale di Sorveglianza "entro trenta giorni dalla ricezione degli atti" comporti la perdita d’efficacia del decreto di sospensione della misura ed il conseguente diritto del condannato alla scarcerazione o, più in generale, al ripristino della precedente misura alternativa, sembra altrettanto indubbio che la dimissione di un detenuto da un istituto penitenziario non possa che avvenire previo ordine scritto della competente Autorità Giudiziaria.

A sostegno dell’affermazione che precede si rileva anzitutto che la funzione svolta dal magistrato di sorveglianza, a norma dell’art. 51 ter O.P., è cautelativa e non decisoria, risolvendosi in una provvisoria sospensione della misura alternativa; il relativo provvedimento non si pone, dunque, come un grado precedente di decisione rispetto a quella che promana dal Tribunale di sorveglianza; in tal senso, la stessa Cassazione ha più volte affermato che non sussiste alcuna incompatibilità a comporre il collegio di detto Tribunale, chiamato a decidere in ordine alla revoca della misura alternativa, da parte del magistrato di sorveglianza che ne ha disposto la sospensione in via provvisoria, il quale, anzi, di norma, ne deve far parte (art. 70, comma 6, O.P.) (5).

Il decreto del magistrato di sorveglianza che, ai sensi dell’art. 51 ter l. 26 luglio 1975 n. 354, sospende provvisoriamente una misura alternativa alla detenzione non è, altresì, ricorribile per Cassazione, in quanto è finalizzato esclusivamente a fronteggiare quelle situazioni che possono ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del beneficio, conservando effetto fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza (6).

È necessario, inoltre, segnalare l’esistenza di altre ipotesi, relative a termini o situazioni che prevedono la cessazione automatica di una misura coercitiva cautelare (quali il mancato interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare, art. 302 c.p.p., e, in generale, le vicende estintive previste dagli artt. 300 e seguenti dello stesso codice), nelle quali, nondimeno, è richiesta l’adozione da parte dell’A.G. competente di un provvedimento con il quale la medesima ordini al direttore dell’istituto di custodia l’immediata dimissione.

Questa appare essere la regola che trova espressione, tra l’altro, nell’art. 98, comma 1, norme di attuazione c.p.p., nell’art. 43, comma primo, O.P., nell’art. 84, comma 1, del previgente regolamento di esecuzione (D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431), di tenore esattamente corrispondente al comma 1 dell’art. 89 dell’attuale regolamento di esecuzione, nella seconda parte del comma 1 dell’art. 7 regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale.

Detta regola deve osservarsi anche in presenza di un provvedimento giudiziario, di natura cautelare, quale è, appunto, il decreto sospensivo adottato dal magistrato di sorveglianza, costituente titolo provvisorio di legittimo ripristino della carcerazione del soggetto già ammesso a una misura alternativa.

In conclusione è da ritenersi che, anche nella fattispecie prevista dall’art. 51 ter il dovere del direttore di far riassumere al detenuto la posizione di affidato in prova al servizio sociale, di ammesso al regime di semilibertà, di detenzione domiciliare o di detenzione domiciliare speciale, non possa che scaturire da un provvedimento liberatorio - conseguente alla perdita di efficacia per decorso del termine di trenta giorni previsto dalla legge del decreto di provvisoria sospensione delle suddette misure - da emettersi a cura dell’autorità giudiziaria che procede (7).

Non risponde dunque a un’esigenza di rispetto meramente formale delle norme (che è comunque di per sé sufficiente) la richiesta del provvedimento all’A.G. che procede.

Note

 

1. Sia a seguito della diffusione di una criminalità sempre più violenta e pericolosa, autrice, peraltro, di gravissime aggressioni e attentati, sia di un’aspra critica nei confronti di alcuni episodi di applicazione delle misure premiali a condannati di "alto livello criminale", si è avvertita l’esigenza, verso la fine degli anni ‘80, di delimitare e ridefinire i presupposti per l’applicazione delle misure alternative.

In tal senso la legge 12 luglio 1991, n. 203 di conversione del D.L. 13 maggio 1991, n. 152 e la legge 7 agosto 1992, n. 356 di conversione del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, hanno fortemente derogato al principio dell’uguaglianza di tutti i condannati nella fase dell’esecuzione della pena, principio enunciato dalla legge 354/75.

Il legislatore attraverso la decretazione di urgenza del biennio 1991-’92 si è mosso sulla base di due direttrici:

ha previsto nell’art. 4 bis O.P. una serie di restrizioni e di esclusioni nei confronti dei condannati per i delitti riferibili alla criminalità organizzata;

ha escluso tali inasprimenti per coloro che pur appartenendo a tale categoria collaborassero con la giustizia, nei termini definiti dall’art. 58 ter O.P.

Si è creato, secondo buona parte della dottrina, un regime di "doppio binario" per l’accesso alle misure alternative; da un lato si è venuto a delineare un irrigidimento verso i soggetti ad "alta pericolosità sociale"; dall’altro è possibile evincere una sorta di tolleranza per i soggetti per i quali è da valutare la sussistenza di una "pericolosità" di tipo "amnistiale" per la mancanza di adeguati strumenti sociali di controllo che permettano di valutare la c.d. "pericolosità residua". In conseguenza della predetta legislazione emergenziale e premiale il trattamento dei condannati viene ora diversificato sia rispetto alle modalità della privazione della libertà, sia in relazione alle condizioni e alle prospettive di fruizione di benefici penitenziari. Queste previsioni normative, però, hanno suscitato molte perplessità e sono state oggetto di intervento della Corte costituzionale. Al riguardo vedi G. La Greca, La riforma penitenziaria a venti anni dal 26 luglio 1975, in "Diritto penale e processo", 885-886 e F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, Giappichelli, Torino, 360-361.

Recentemente, poi, con la legge n. 45/01, anche le previsioni a favore dei collaboratori di giustizia sono state modificate. Il nuovo dettato legislativo, come è stato osservato, si caratterizza per una contrazione della premialità. Tale contrazione si estrinseca non soltanto nella drastica limitazione della tipologia di benefici penitenziari concedibili, ma altresì nella previsione, innovativa rispetto alla disciplina previgente, di una serie di requisiti la cui ratio non attiene a quei profili di finalizzazione rieducativa propri degli istituti noti del diritto penitenziario, ma che rispondono all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricalibrare la portata delle premialità concesse dall’ordinamento a chi si è reso autore di reati di notevole allarme sociale. Cfr. F. Fiorentin, I benefici penitenziari per i collaboratori di giustizia: alcune annotazioni alla luce della prima applicazione della legge n. 45/01, sul sito internet Diritto & Diritti, all’indirizzo web: www.diritto.it.

2. Cfr. G. Casaroli, Misure alternative alla detenzione, in Digesto Penale, Torino, 1994, vol. III, p. 12; C. Brunetti – M. Ziccone, Manuale di Diritto Penitenziario, La Tribuna, 2004; C. Brunetti, Pedagogia Penitenziaria, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005.

3. Prendere il Capo VI del titolo I della legge 354/75 come termine di riferimento implica in realtà una duplice sfasatura, per eccesso e per difetto, rispetto all’estensione concettuale della definizione di misura alternativa. Per un verso infatti la legge sull’ordinamento penitenziario eccede, includendo fra le misure alternative alla detenzione oltre all’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 O.P.; art. 47 bis O.P.), alla detenzione domiciliare (art. 47 ter O.P., introdotta dalla legge 663/86) ed alla semilibertà (art. 48 O.P.), anche la liberazione anticipata nonché la disciplina delle licenze e delle modalità di esecuzione della libertà vigilata. Per un altro verso la legge è in difetto in quanto non considera la liberazione condizionale, disciplinata dal codice penale all’art. 176.

4. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che il momento iniziale di decorrenza del termine di trenta giorni coincida con quello dell’arrivo presso il Tribunale di tutti gli atti relativi al procedimento e, dunque, anche di quello con il quale si dà comunicazione dell’ingresso in istituto in esecuzione del decreto di sospensione. Cass., sez. I, 13.12.1994 , n. 6009. Si deve ritenere, inoltre, che l’art. 51 ter O.P. non trovi applicazione con riferimento all’ipotesi degli arresti domiciliari proseguenti nella fase esecutiva ex art. 656, comma 10, c.p.p.; cfr. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di Diritto Penitenziario, Giuffrè, 2004.

5. Cassazione penale, sez. I, 25 giugno 1993; Cassazione penale, sez. I, 13 ottobre 2000, n. 1408.

6. Cassazione penale, sez. fer., 6 settembre 2002, n. 32002.

7. Appare chiaro, oltre tutto, che possono sorgere questioni di non semplice soluzione circa la cessazione d’efficacia del provvedimento sospensivo adottato dal magistrato di sorveglianza, come nel caso in cui il Tribunale di sorveglianza, pur avendo celebrato l’udienza nel termine di trenta giorni, abbia ritenuto di aggiornare il procedimento ad altra udienza, su istanza dell’interessato o per acquisizioni istruttorie. In tal senso, la Cassazione ha precisato che è illegittimo anche il provvedimento del Tribunale di sorveglianza che, dopo la sospensione provvisoria dell’affidamento in prova terapeutico disposto dal magistrato di sorveglianza, anziché decidere nel termine di decadenza previsto dall’art. 51 ter della l. n. 354 del 1975 sulla revoca della misura, rinvii più volte l’udienza camerale, disponendo dapprima la scarcerazione del condannato e, infine, negando la revoca, sulla base della valutazione di comportamenti tenuti da quest’ultimo successivamente a tale scarcerazione. Cassazione penale, sez. I, 2 giugno 1999, n. 4003.

 

 

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