Amore e carcere

         

Amore e carcere

di Adriano Tonegato (Psicologo – psicoterapeuta)

Quando sono stato invitato a partecipare a questo convegno con un contributo riguardante una parte della mia attività professionale, quella di consulente psicologo per il Ministero della in Istituti di Prevenzione e Pena, ho avuto un attimo di smarrimento, di imbarazzo, di disagio. Mi sono sorpreso, e ho dovuto allora riflettere e chiarirmi: ho ravvisato che non sfruttare questa occasione avrebbe significato, soprattutto per me, operatore del settore, esorcizzare il tema negandolo e rimuovendolo per rifugiarmi in una penombra di sicurezza, uguale a quella nella quale si protegge la società intesa come massa, quella per la quale è conveniente, se non imperante, non arrivare allo strepito e al disagio di ciò che, se anche esiste, è "altro da me".

Di qui la decisione di questa relazione che non vuole essere una trattazione né una illustrazione esaustiva ma solamente l’opportunità di comunicare e parlare di quest’argomento, non certo con l’intenzione di trovare soluzioni, bensì di cercare di aprire e provocare un dibattito, anche se oltremodo complesso e difficile, e indicare casomai direzioni da approfondire.

Ho cercato quindi di affrontare il problema non sull’onda dell’emozione o della passione, cosa fin troppo facile, quanto rischiosa, ma riflettendo su ciò che ho osservato e letto in diversi anni, essendo il tutto da una parte di sicura problematicità, dall’altra di difficile eventuale risolvibilità.

Parlare di amore e carcere significa parlare necessariamente di amore in relazione alla vita del carcere. Perciò ho delineato anzitutto il carcere e il carcerario.

Che cos’è il carcere? Qual è la sua funzione e il suo mandato sociale? Una risposta chiara non esiste perché in verità al carcere oggi si chiede tutto e il contrario di tutto. Diciamo che il carcere accoglie coloro che hanno intaccato la libertà dei membri della società.

In senso tecnico, è un luogo, un recinto chiuso dove una persona è ristretta, per ragioni custodialistiche, o per espiare una pena. Al suo interno vengono esauriti interventi che riguardano l’arco intero della giornata, l’arco intero dell’esistenza di un individuo. Il quadro entro il quale la restrizione avviene è definito dalla cella, che è lo spazio normale e prevalente di vita, dai tempi e dai modi stabiliti di utilizzazione degli altri spazi fuori cella, dalla determinazione dei percorsi tra la cella e gli spazi esterni. Questi aspetti, alla fine, prestabiliscono i tempi e i modi di vivere sia in cella che fuori di essa.

L’istituzione carceraria passa così, storicamente parlando, attraverso vari tipi di interventi alcuni dei quali, i più conosciuti sono: la morte, la mutilazione, la privazione dei beni, la deportazione, l’isolamento fisico individuale e, attualmente, l’isolamento sociale, in un contesto che progressivamente da vendicativo è divenuto punitivo, poi afflittivo e, oggigiorno, rieducativo e risocializzante, almeno nelle intenzioni dichiarate, perché è risaputo che nella realtà, quasi sempre, l’esperienza carceraria consolida e incrementa la scelta deviante o criminale.

L’isolamento sociale nella misura in cui diviene limitazione di movimento che agisce sul corpo, agisce prima o poi anche sull’anima ovvero agisce sull’identità che un soggetto si dà o riceve. Si può dire così che il carcere arriva al sequestro del corpo del singolo ed inevitabilmente alla soppressione delle pulsioni naturali primarie, quindi anche di quelle erotiche e della libido, le quali rappresentano momenti fondamentali della realtà biopsichica dell’individuo.

E questa è un’afflizione disumana, che non castiga un delitto, ma è essa stessa un delitto contro la persona senza vantaggi per alcuno

Se la struttura impedisce il rapporto con l’altro sesso vuol dire che nega l’amore, e di conseguenza nega anche l’uomo. La possibile soluzione, la sublimazione dell’amore, non potendo che essere una scelta volontaria, certamente non può scaturire da una situazione e da vissuti impositivi.

Se consideriamo che l’amore è composto da affettività e sessualità, in carcere ciò che è possibile è di recuperare o sostituire lo spazio dell’affettività con lo spazio dell’immaginazione che, però, nel tempo diviene patologico e che un po’ alla volta porterà anche all’autofilia.

Lo spazio della sessualità inibita invece erotizza piano piano tutta la vita del recluso, al quale rimangono alternative quali la distrazione del cinema, la pratica sportiva con la stanchezza fisica, gli interessi ricreativi, culturali, religiosi, mentre la rinuncia alla sessualità rimane una realtà, con i suoi effetti degenerativi che iniziano con inquietudine e frustrazione, passano per la deviazione, con il rischio assai probabile di cristallizzarsi nella violenza, o nella malattia fisica o psichica.

Infatti il carcere non può non scatenare, in un soggetto sano, l’aggressività, la reattività, la spinta alla rivincita; in un soggetto labile, cioè a rischio, deprime, toglie ogni iniziativa e progetto, lo fa sentire e divenire sempre più inadeguato.

D’altronde è anche vero che la legge ha l’obiettivo di rieducare e risocializzare. Il che vuol dire che non è più possibile non affrontare i problemi che derivano dai bisogni naturali affettivi e sessuali, visto che riguardano il nucleo della personalità globale dell’individuo e conseguentemente i vari aspetti pulsionali, istintivi, relazionali, di scambio, di comprensione, di fantasia, cioè il progetto esistenziale individuale.

Ben si ritiene che l’affettività e la sessualità tendano e mirino ad unificarsi, in un unico impulso vitale: nel contingente carcerario invece rimangono e si consolidano in un binomio irriducibile, fino a sclerotizzare la scissione tra affetti e sesso.

Per l’istituzione carceraria, le relazioni affettive previste si possono realizzare o con permessi premio a domicilio (ricompense per una buona condotta) oppure con visite-colloqui all’interno del carcere stesso. Tali colloqui sono, dapprima, concessi dopo una lunga attesa, poi vagliati, periodicizzati, prefissati, limitati al punto tale da divenire talvolta in autentici. Per molti diviene allora surrogato la formula epistolare, che volgerà sempre più al fantastico, all’enfatico, all’ideale, al mito, con il rischio di divenire ostacolo al rapportarsi normalmente sia all’interno che soprattutto all’esterno del carcere una volta liberi.

La sessualità invece, avulsa da componenti affettive interne (le possibili sono l’amicizia, la solidarietà e, per le donne, talvolta, l’allevamento del neonato) assume nel tempo una valenza abnorme, esasperata e ingrandita da fantasie che a lungo andare si trasformano in rituali, cioè in forme coercitive e ossessive se non maniacali.

Dovendosi manifestare in una realtà ristrettissima, essa inevitabilmente diviene auto-erotismo, oppure omosessualità. La prima forma si manifesta nei primi tempi come proiezione fantastica di estraniazione e fuga dalla cella e dal carcere, oltre che come scarica pulsionale genitale primaria, con gli effetti però anche di regressioni sessuali pre-genitali e con il rischio, sulla distanza, di nascita di perversioni.

La seconda forma, più che vera e propria omosessualità, intesa come scelta privilegiata o definitiva, consiste in pratiche omosessuali, effetto dell’adattamento al contesto. Adattamento che investe in modo negativo, cioè disconferma, i problemi d’identità individuali e sociali, come pure l’autostima, il proprio orgoglio, la dignità, e perciò con conseguenze di frammentazione dell’Io a volte inarrestabili.

Esiste anche la sessualità come episodio di violenza fisica, per la verità sempre meno frequente da quando la popolazione carceraria è formata per più del 50% da tossicodipendenti, in quanto questi ultimi, come categoria sociale, in carcere, sono per lo più solidali tra loro. In quest’ultima eventualità, della sessualità come violenza, è rilevabile l’effetto più devastante di tale esperienza in quanto provoca paralisi oppure annientamento dell’Io, dovuti al terrore o allo scatenarsi di forme di aggressività auto-diretta o etero-diretta, senza limite o controllo alcuno, con conseguenze spesso tragiche e irreversibili (ad esempio autolesionismo e mutilazione).

Quanto sopra detto è più specificatamente significativo per il maschio, probabilmente in funzione dello stereotipo della virilità che il sociale gli attribuisce e che si attende venga confermato, a differenza di quanto succede per la donna per la quale, invero, non c’è lo stereotipo equivalente; infatti "la femminilità" è altro dalla virilità.

Così nel carcere femminile l’omosessualità, oltre che nell’ambito della necessità sostitutiva di eterosessualità, si manifesta con aspetti più provocatori e esibizionistici perché diretta anche contro l’istituzione e però con componenti interpersonali quasi sempre affettive, anzi, si potrebbe dire, materne; probabilmente a recupero fantastico ed ideale di un altro aspetto molto doloroso: l’impossibilità di maternità.

Non a caso in molte donne dopo i primi mesi di detenzione si interrompe il flusso mestruale, come se un’incontrollabile pulsione di auto-aggressività spingesse a non identificare la natura femminile con il corpo. In altre parole viene stravolto quel comportamento che nella donna il sociale, l’educazione tradizionale, la cultura personale, convogliano da sempre con naturalezza più verso le emozioni e i sentimenti, come si dice verso il cuore, che non verso la testa, per cui la donna è, appunto, più spontaneamente in sintonia psicofisica con gli affetti, tuttavia non più possibili una volta in reclusione. Sopravviene così il sorgere di una scissione tra il vissuto fantastico affettivo e il comportamento in senso lato, cioè, nello specifico, essere donna prima e detenuta poi.

Spostandoci ai problemi connessi più strettamente con il carcerario è inevitabile partire dall’articolo n° 27 della Costituzione il quale recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

E, di fatto, l’attuale normativa carceraria non contiene alcun articolo che vieti esplicitamente la sessualità, intesa come parte significativa dell’espressione della propria affettività, come pure nessun articolo la autorizza se non, indirettamente, nella formula dei permessi premio all’esterno. Il che sta anche a significare che il livello istituzionale attuale a questo riguardo, è testimonianza di una permanente inadempienza dello Stato rispetto a una giusta soluzione del problema, poiché il bisogno di amore, pur con intensità diverse, è vissuto da tutti. Infatti, anche la vita degli uomini vissuta all’interno delle carceri è sempre progetto di vita, quindi anche la libertà di vivere la propria affettività-sessualità è un aspetto della vita del detenuto che deve evolvere.

Ed a questo punto si pone una domanda di fondo: si tratta di affrontare il problema del riconoscimento di un diritto o del disconoscimento di una proibizione parallela alla privazione della libertà?
Nel primo caso, considerando il riconoscimento di un diritto, ci sarebbe un ampliamento e un arricchimento per il recluso; ci sarebbe finalmente, dopo i diritti civili già riconosciuti, la legalizzazione di un diritto umano, ammettendo la praticabilità di una manifestazione di vita non incompatibile con la privazione della libertà. Privilegiando tale piano si contribuirebbe ad una maggiore tutela del soggettivo del detenuto.

Nel secondo caso, affrontando il disconoscimento di una proibizione, ci sarebbe una modifica del concetto di pena, la quale diventerebbe meno pena e quindi si scalfirebbe l’equazione pena uguale castigo o, in altre parole, pena uguale a contrario di libertà.

Privilegiando tale orientamento si inciderebbe su un piano oggettivo e quindi politico. Quindi si innescherebbe un processo innovativo a livello socio - giuridico, ad esempio nell’auspicabile avvio della riforma del codice penale, e nella revisione del concetto di pena; di conseguenza anche l’amore in carcere potrebbe essere una delle idee cardine. Sarebbe inoltre conquistata la posizione che il bisogno di amore, più che un diritto, è una cosa naturale e perciò, non essendo diritto, non sarebbe più regolamentato e coinvolto nel meccanismo premio - ricompense con le relative dinamiche per usufruirne. Per di più, poiché tale problema è di tutti, raggiungerebbe tutti, (i premi e le ricompense invece, solamente pochi) e si eviterebbe anche, in questo modo, parte di quella scissione strutturale della giustizia, tra il momento di erogazione della equa pena ed il momento afflittivo della sua applicazione tramite il sistema penale.

Altro aspetto di fondamentale importanza che si presenta, qualora si opti verso un’ottica di promozione di incontri amorosi, è questo: all’interno del carcere o all’esterno di esso?
Se si esamina la possibilità che essi vengano vissuti all’interno della struttura carceraria è necessario analizzare anche talune implicazioni assai interessanti. C’è il rischio di entrare nella logica di fare del carcere "un modello di vita carceraria", il che significherebbe anche più carcere per una società che ha bisogno casomai, di meno carcere.

Nell’ipotesi di soddisfare prevalentemente la sessualità c’è il rischio di fissare altri modelli di riferimento: autorizzare, per esempio, solo chi prima della carcerazione aveva rapporti definiti o regolari secondo la legge o la morale corrente; il che significherebbe passare da un modello costrittivo ad un altro ordinatorio, per cui chi avesse o avesse avuto un certo tipo di rapporto esterno potrebbe continuare ad averne ancora, mentre chi non ne avesse avuto alcuno o ne avesse avuti molti indefiniti al momento dell’arresto, in carcere non ne avrebbe più.

È evidente quindi che ciò sarebbe senz’altro assai pericoloso. Sempre affrontando il problema dell’amore all’interno del carcere, altro aspetto saliente sarebbe quello di risolvere, in modo molto parziale, il fatto che alla reclusione intesa come pena individuale per una responsabilità personale, si aggiunge una pena suppletiva per il coniuge o per il partner o per gli eventuali figli, i quali soffrono dell’assenza del recluso. E a questo proposito si sa che una pena, anche non necessariamente lunga, comporta spesso la messa in crisi e poi la fine dei rapporti esistenti prima.

Molte altre considerazioni si potrebbero fare, ma mi avvio a concludere. Parlare di amore e di carcere significa parlare di due cose che si negano reciprocamente. Se l’amore è un’espressione in cui la gioia e il piacere sono la scoperta di se stessi e dell’altro in un gioco armonico di mente e corpo, se è rifarsi ad un sinonimo di libertà nelle sue più pure accezioni di spontaneità, di emotività di estemporaneità, come concepirlo in una dimensione coatta?

Ne deriva che non è umano, non è concepibile accettare un’istituzione che contribuisce alla destrutturazione di un individuo in una sfera tanto importante: prima di pensare di riparare dei guasti occorre non deteriorare ciò che non è ancora rovinato. Quindi ne consegue la necessità di aprire un discorso approfondito tendente a identificare le direzioni da percorrere e di riflettere sul sistema sanzionatorio complessivo, stille risposte che vengono date di tipo più o meno tra il pietistico ed il surrogatorio per aspetti e problemi che interessano sia chi è in carcere sia chi è fuori.

La persona reclusa deve essere punita anche nell’amore, e fino a che punto? Se la Costituzione afferma che il detenuto, tramite la pena che rappresenta l’espiazione di un reato e contemporaneamente la difesa della società, deve essere rieducato e socializzato, come è possibile farlo se contemporaneamente lo si priva della possibilità di amare?
Le soluzioni operative per affrontare tale problema qui non sono neppure accennate. Esse potrebbero tener conto di esempi già in via di attuazione in alcuni paesi stranieri. Tali esperienze tendono a riprodurre ambienti di vita familiare, domestica, (quindi non la cella chiusa), con tempi ragionevoli (quindi non poche ore) sì da evitare riproposizioni automatiche di incontri finalizzati al solo possibile rapporto sessuale, il quale sarebbe ovviamente poco affettivo e prevalentemente meccanico e consumatorio.

Si potrebbe concludere quindi che oggi la riflessione sul problema "amore e carcere", e sulla costruzione di un percorso per superarlo, riporta ad un tema generale: quello di non avere un carcere contenitore bensì un carcere aperto; giacché l’amore è il contenitore più grande che può avere un essere umano, ed è l’amore che, casomai, può contenere il carcere.

 

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